La lotta alle carestie fu la culla del welfare

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Dalla fine del Settecento, in Europa, quanto meno in periodo di pace, le carestie scomparvero (con le eccezioni dell’Irlanda nel 1845-49, della Finlandia nel 1866-68 e della Russia nel 1891-92). Ma solo in Europa, tant’è che in India e in Cina tra il 1870 e il 1900 morirono di fame almeno 30 milioni di persone. C’è qualcuno che ha provato a dare un senso storico a questo genere di disastri. Nel 1798 Thomas Robert Malthus definì la carestia «l’ultima e più spaventosa risorsa della natura… il modo più atroce con cui la natura reprime una popolazione in esubero» . L’idea che la carestia fosse una conseguenza della sovrappopolazione— sebbene non necessariamente un suo correttivo — risale in realtà  a quasi cinquemila anni fa, al mito babilonese di Gilgamesh. La leggenda racconta che gli dei ridimensionarono la popolazione quando la pace venne distrutta a causa di un «popolo diventato numeroso e della terra divenuta un muggito di buoi selvaggi» . Anche nell’Antico Testamento (libro di Neemia) c’è un esplicito riferimento alla sovrappopolazione che lasciava i poveri senza cibo, induceva chi aveva qualche proprietà  a ipotecarla per poter comprare qualcosa da mangiare e addirittura costringeva i più a vendere i figli come schiavi. In tempi di crisi alimentare, tra il 421 e il 422, nelle province di Pontos e di Paflagonia sul Mar Nero, i genitori eviravano i figli e li vendevano come eunuchi. E non è detto che venderli in quel modo fosse la cosa peggiore. Parlando della Cina, Malthus osservò che in tempo di carestia «per le madri era un dovere sopprimere i figli appena nati, e i giovani sentivano l’obbligo di dare il colpo di grazia ai più anziani per risparmiare loro le agonie di una morte lenta» . Al momento dell’assedio assiro di Samaria, nell’XI secolo a. C., si ebbero casi di genitori che si cibavano delle carni dei loro figli appena nati. Casi di cannibalismo connessi ad una carestia si registrarono anche in Egitto nel 1201, nel Natal all’inizio dell’Ottocento, in Etiopia tra il 1888 e il 1892, a Leningrado ai tempi dell’assedio nazista (1941-43), in Cina, nella provincia di Henan, tra il 1942 e il 1943. Malthus provò a spiegare che quando tutti gli altri freni si rivelano insufficienti ad arginare l’aumento incontrollabile delle nascite, «una carestia gigantesca e inevitabile aggredisce alle spalle e, con un solo colpo potente, adegua la popolazione agli alimenti della terra» . In seguito l’analisi di ciò che è intrinseco ad una carestia è stata molto approfondita e, come vedremo, ci ha condotti lontano dalle tesi di Malthus. Ma, ancora qualche anno fa, nel saggio I contadini di Linguadoca (Laterza), Emmanuel Le Roy Ladurie parlò di quella terra, nel Seicento, come di «una società  malata di sovrappopolazione» , a cui la crisi alimentare aveva posto rimedio provocandone una «violenta contrazione» . Adesso un libro davvero eccellente di Cormac à“ Grà¡da, Storia delle carestie— di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — spiega come queste crisi per mancanza di cibo siano state sì, per secoli e secoli, uno dei più atroci drammi della storia, ma abbiano avuto anche un ruolo propulsivo sulla via che ha condotto alla modernità . In passato queste crisi ebbero uno stretto rapporto con i conflitti armati. Nel libro di Geremia, che descrive un periodo tempestoso della storia ebraica (580 a. C.), guerra e carestia sono quasi sinonimi. Prima della conquista macedone del 338 a. C., l’antica Grecia era stata quasi del tutto risparmiata dalle crisi alimentari. Poi invece — con le guerre — conobbe immani carestie. Nell’antica Roma, durante i periodi di pace, quasi non si verificavano crisi alimentari, che invece divamparono nel corso delle guerre puniche e delle guerre civili del 49-31 a. C. Qualcuno le carestie le ha provocate ad arte, come Giulio Cesare ad Alesia nel 52 a. C., al fine di conquistare definitivamente la Gallia di Vercingetorige. Allo stesso modo, nel 1628, fu fatta capitolare per fame la città  ugonotta francese di La Rochelle. Del resto von Clausewitz lo ha scritto in modo chiaro nel trattato Della guerra (1832): «Se l’assalitore non si azzarda ad avvicinarsi a una posizione nemica, può assediarla e prenderla per fame» . Epoche di grave depressione causate da carenza di cibo si hanno ovviamente anche a seguito di uno scarso raccolto. O di una stagione di assenza di piogge: le prime carestie di cui si ha notizia, citate nelle stele egizie che risalgono al 3000 a. C., sono tutte associate a lunghi periodi di siccità . O, all’opposto, sono causate da inondazioni: la grande crisi che colpì l’Europa nel 1315-17 ebbe origine dalle piogge torrenziali che caratterizzarono l’estate del 1315. O per il gelo: il grand hiver del 1708-09 in Francia e il freddo glaciale in Irlanda nel 1740. Talvolta le crisi furono provocate da shock ecologici. In Europa, l’inizio dei secoli bui è stato associato a eventi disastrosi non ben definiti, attorno al 530, che compromisero la coltivazione di ortaggi per oltre un decennio. In Giappone, le carestie Kangi del 1229-32 e le carestie Shoga del 1257-60 furono provocate da spaventose eruzioni vulcaniche. Allo stesso modo il disastro alimentare che colpì l’altopiano messicano pochi decenni prima dell’arrivo dei conquistadores fu causato dall’eruzione del Kuwae, a Vanuatu, intorno al 1452. Cause naturali, dunque. Ma la guerra tende ad aggravarne i danni, come nel caso dell’Europa nel primo decennio del Trecento, in quelli del Deccan, in India, nel 1630, dell’Irlanda tra il 1650 e il 1660 e ancora tra il 1680 e il 1690, della Francia sul finire del Seicento, dell’Ostrobotnia finlandese tra il 1808 e il 1809, della Spagna tra il 1811 e il 1812, dell’Africa meridionale tra il 1810 e il 1830, del Matabeland, sempre in Africa, alla fine dell’Ottocento e dell’Unione Sovietica all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Sostiene Cormac à“ Grà¡da che se Malthus scriveva che la sovrappopolazione era la causa principale della carestia, oggi si può dimostrare il contrario. Nel senso che la fame provoca malattie e spinge le popolazioni a spostarsi, quasi sempre verso le grandi città . Nel 370 la penuria di cibo spinse grandi quantità  di persone dalle campagne verso Costantinopoli, nel 362-63 e nel 384-85 verso Antiochia, nel 500-02 a Edessa, nel 1528-29 e poi nel 1570 a Venezia, nel 619 ad Alessandria. E ogni volta queste migrazioni portavano con sé germi che provocavano autentiche stragi di popolazione. Un secolo fa lo scienziato britannico Charles Creighton ha dimostrato che le tre più gravi epidemie di febbre della prima metà  del Settecento in Gran Bretagna — nel 1718-19, nel 1727-29, nel 1740-42— erano state provocate da irlandesi in fuga dalla carestia. Poi ci sono stati i danni provocati, per così dire, dalla politica. Adam Smith sosteneva che le carestie che avevano colpito l’Europa all’inizio dell’epoca moderna erano state provocate per lo più dalla violenza dei tentativi di governi di rimediare, con mezzi impropri, ai disagi causati dalla scarsità  di cibo. Più che una costatazione su ciò che era accaduto tra il Sei e il Settecento, quella di Smith fu una profezia su ciò che si sarebbe verificato nel Novecento: il danno causato dai magri raccolti in Unione Sovietica nel 1932-1933 e in Cina tra il 1959 e il 1961 fu assai aggravato dall’azione umana. Della politica appunto. Ma la politica ha avuto un rapporto assai più articolato con la carestia. Cormac à“ Grà¡da ricostruisce come nel vivo della grande carestia irlandese dell’Ottocento, il leader dell’opposizione lord George Bentinck accusò le autorità  di aver «edulcorato i dati» sul bilancio delle vittime e profetizzò che «un giorno si sarebbe saputo il vero numero dei morti» talché i cittadini avrebbero potuto giudicare l’operato del governo in Irlanda. Il governo, per parte sua, si rifiutava di considerare il numero dei morti come un indice del fallimento della politica nazionale e giudicava impossibile stimare la mortalità  in eccesso. Nella Camera dei Comuni, il primo ministro lord John Russell respinse le richieste di conteggio delle vittime perché «la polizia avrebbe compreso nel computo dei morti per fame anche chi veniva trovato senza vita in un campo» . Dopo quella polemica sono state tentate diverse stime della mortalità  in eccesso. I «revisionisti» hanno «messo in dubbio l’attendibilità  della stima di un milione di vittime, mentre i nazionalisti più accesi la giudicavano troppo bassa» . Una corrente di pensiero che fa riferimento a Karl Polanyi (1886-1964) imputa alle forze di mercato la rottura del contratto sociale che aveva legato governanti e governati nell’era precapitalista. Secondo Polanyi nel feudalesimo la condotta a suo modo responsabile della nobiltà  aveva favorito la regolazione dei mercati al fine di prevenire le carestie, mentre nel regime capitalista i mercati erano lasciati liberi di governare e le regole del gioco non erano tali da far sì che qualcuno fosse indotto a farsi scrupolo per la popolazione in modo da evitare che fosse sterminata dalla fame. Tra le righe Polanyi riproduceva l’antichissimo sospetto in base al quale, in tempi di carestia effettiva o incombente, parte consistente della responsabilità  era riconducibile ai produttori e ai venditori di derrate alimentari. «L’immagine popolare dei mercanti come profittatori e accaparratori» , scrive à“ Grà¡da, «condusse alla dilagante sensazione che essi traessero beneficio dal libero mercato… Già  nel 362-63, l’imperatore romano Giuliano aveva accusato i facoltosi cittadini di Antiochia di creare carestia in una città  dove “tutto è in abbondanza, ma tutto è costoso”; accuse simili vennero rivolte nel 1693 a un gruppo di cittadini di Reims che tenevano nei fienili “grandi quantità  di grano che rifiutavano di esporre per la vendita”» . Riferendosi alla carestia inglese del 1632, William Laud denunciava: «Questi ultimi anni di fame sono stati opera dell’uomo, non di Dio» . Karl Marx, riferendosi alla grande carestia irlandese, scrisse che essa aveva ucciso «solo i poveri diavoli» (ed è ovvio che la scarsità  di cibo colpisca più i poveri che i ricchi). Ma se poi si analizza meglio la connessione tra fame e epidemie, si scopre che, negli ambienti particolarmente infestati dalle malattie, i benestanti erano esposti al rischio come gli altri, talvolta più degli altri. In Irlanda tra il 1840 e il 1850 (la crisi a cui si riferiva Marx) e in Finlandia nel 1860-70, la mortalità  tra i medici (così come tra infermieri e soccorritori) era assai più elevata che nella media della popolazione. Di regola gli uomini al potere vengono incolpati dell’assenza di cibo. Capitò a Nerone nel 68 d. C., a Pietro Loredan (1482-1570), ribattezzato il «doge del miglio» , alla regina Vittoria, accusata per la carestia irlandese di metà  Ottocento. Il «potente» veniva quasi sempre individuato come il «responsabile» della crisi. Ciò ha spinto le élite a inventare sistemi per prevenire o affrontare queste catastrofi alimentari. La prima prova documentata di aiuto prestato alle vittime di una carestia risale al 1700 a. C. in Egitto. Una stele della tredicesima o quattordicesima dinastia porta l’iscrizione: «Ho dato pane a chi aveva fame, indumenti a chi era nudo e sandali a chi era scalzo; ho dato grano a tutto il paese, ho salvato la mia città  dall’inedia… nessuno ha fatto ciò che ho fatto io» . Racconta Cormac à“ Grà¡da che «nelle antiche Grecia e Roma i membri delle oligarchie locali si adoperavano per evitare che le crisi alimentari (assai frequenti) si trasformassero in carestie (assai rare)» . Nel 123 a. C. i disordini civili provocati da penuria di cibo spinsero il tribuno della plebe Gaio Gracco a promulgare la prima lex frumentaria, che garantiva a tutti i cittadini grano a prezzo calmierato. A Roma e a Costantinopoli, sul finire dell’età  classica, «l’azione pubblica per fronteggiare le crisi rappresentava un punto chiave del codice morale imperiale» . Costantino, il primo imperatore cristiano, iniziò a usare le chiese come struttura portante per l’assistenza ai bisognosi; Giuliano II, detto l’Apostata, ai tempi della grave carestia di Antiochia (362-63), supervisionò egli stesso la distribuzione del reddito e del grano, ridusse le dimensioni della corte, diminuì le tasse e distribuì le terre non coltivate, creando una classe di piccoli proprietari. Nell’Inghilterra degli anni prima della Riforma, come nel resto d’Europa, gran parte della responsabilità  degli aiuti ricadeva sulla Chiesa. «Con lo scioglimento dei monasteri, avvenuto tra il 1530 e il 1540» , osserva Cormac à“ Grà¡da, «emerse la necessità  di nuove strategie per aiutare i poveri nell’eventualità  di cattivi raccolti; tali strategie vennero codificate nel Book of Orders (1586) di Elisabetta I… Con altre leggi approvate nel 1598 e nel 1601, il Parlamento inglese mise in atto un sistema coercitivo di aiuti alle fasce più povere della popolazione amministrato e finanziato a livello locale» . Per rafforzare le strategie di controllo dell’offerta, venne organizzato un sistema di sostentamento ai poveri finanziato con una tassa obbligatoria sulla proprietà  (poor rate). Si può forse dire che il seme del moderno welfare fu gettato a metà  del quarto secolo da Giuliano l’Apostata e la pianta cominciò a germogliare nel Cinquecento in Inghilterra. Sempre nel Cinquecento, nell’Europa della Riforma, fu importante che Martin Lutero combattesse l’accattonaggio e distinguesse tra «poveri meritevoli» e «non meritevoli» . Contrario alla mendicità  fu anche l’umanista di origini spagnole Juan Luis Vives che, rivolgendosi ai cittadini di Bruges, concedeva che la città  avesse degli obblighi nei confronti dei poveri, ma esortava all’espulsione dei questuanti e all’obbligo di lavoro per chi chiedeva aiuto. Aspra fu la reazione degli ordini dei mendicanti più tradizionalisti. Ma la città  accettò la filosofia di Vives e stabilì che gli aiuti fossero finanziati con tasse ai più abbienti. Nel 1529 il Senato di Venezia approvò un decreto che distingueva tra poveri meritevoli e no, e invitava i capitani delle navi a prendere a bordo tutti gli indigenti che si presentavano, offrendo loro metà  della paga spettante ai normali marinai. Con le prime forme di assistenza si affacciò anche un nuovo tipo di corruzione. A Venezia, nell’aprile del 1570, la questione si pose con i nobili che compravano la farina nei magazzini pubblici e la vendevano come pane con un margine di utili superiore al 100 per cento. Il Senato reagì e stabilì che la farina andava venduta ai fornai, i quali avrebbero cotto il pane da dare ai poveri; ma i fornai, invece di preparare il pane, rivendevano essi stessi la farina. Casi simili si sono ripetuti infinite volte. Il che induce Cormac à“ Grà¡da a due considerazioni: «Innanzitutto è opportuno notare che sebbene le politiche pubbliche e le iniziative private abbiano avuto grande importanza e continuino ad averne, anch’esse sono, in certa misura, funzione di quell’arretratezza economica che permette la diffusione delle carestie. Inoltre, l’ossessione per la corruzione, specie da parte degli stessi poveri, favorisce l’inerzia. In passato, funzionari e commentatori ostili agli aiuti umanitari durante la carestia hanno trovato nella corruzione che inevitabilmente accompagna queste erogazioni un alibi per ridurne l’entità » . Parole non sospettabili di condiscendenza da parte di un autore che nelle pagine successive del libro critica le attuali organizzazioni non governative, accusandole di rincorrere i media e di aver più volte gonfiato le cifre degli esseri umani esposti al rischio di carestia. Il Seicento fu il secolo dei granai municipali. La «chambre d’abondance» di Lione, fondata nel 1643, era impostata sul modello delle «abbondanze» di Genova e Firenze e serviva a contenere riserve di grano per ridurre l’oscillazione dei prezzi e assicurare razioni di pane ai poveri nei momenti di necessità . A capo di queste strutture le amministrazioni cittadine mettevano dei mercanti locali, confidando nella loro abilità . La città , però, non aveva un edificio apposito ed era costretta a immagazzinare il grano in strutture prese in affitto e talvolta era obbligata a vendere le scorte sotto costo per mancanza di spazio. Sicché non era raro il caso che la «chambre d’abondance» fosse colta alla sprovvista da una crisi. Furono istituiti anche ospizi per i poveri e successivamente case per i senza lavoro ma le condizioni di vita all’interno di queste workhouses furono rese assai dure, quasi fossero prigioni, per indurre i cittadini a preferire una qualsiasi forma di operosità , per quanto sottopagata, al ricorso a queste forme iniziali di assistenza. Un altro, diffuso strumento di soccorso alla popolazione fu rappresentato dai lavori pubblici. Ma il secolo in cui la questione della solidarietà  si pose in modo definitivo fu l’Ottocento. La cultura liberal malthusiana fece barriera contro il solidarismo. Thomas Wilson, direttore del nascente «Economist» , sosteneva che «non è compito dell’uomo provvedere al prossimo» , che l’assistenza ai poveri non avrebbe fatto altro che «spostare le risorse dai più meritevoli ai meno meritevoli» . Quello spostamento di risorse era un «azzardo morale» , dal momento che, per fronteggiare una crisi aiutando i più deboli, si creava un terreno fertile per ulteriori e ben più gravi carestie. L’economista William Nassau Senior affermava che più vite venivano salvate, più numerosi sarebbero stati i decessi in seguito. «In una versione provvidenzialista del malthusianesimo» , scrive Cormac à“ Grà¡da, «la carestia veniva vista come un piano divino per attenuare il problema della sovrappopolazione» . Soprattutto quella dei Paesi in via di industrializzazione. Ma anche nei Paesi meno sviluppati il dibattito fu intenso. Nel 1880, in India, il governatore di Bombay, sir Richard Temple, nel mettere a punto un piano anticarestia disse che l’obiettivo della «vita a qualunque costo» era un’utopia. E così scrisse al suo viceré: «Se ci assicuriamo che una classe di uomini — così privi di intelletto, di moralità  e di beni, cioè delle qualità  che danno valore alla vita, da risultare non dipendenti dai freni naturali alla pressione demografica — venga protetta da cause come le carestie e le epidemie che tendono a ridurne il numero attraverso una mortalità  anomala, questa classe di uomini finirà  per divorare tutte le altre classi della comunità » . Ma, a dispetto di queste teorie, la Gran Bretagna introdusse alla fine dell’Ottocento i «Codici della carestia indiana» che furono la prima dichiarazione scritta dell’era moderna sulle politiche da adottare in tempi di carestia: «Occorre stabilire come principio basilare» , sancivano i Codici, «che l’intervento dello Stato deve essere diretto a salvare vite umane e che ogni altra considerazione deve essere subordinata a questo compito» . Da allora di carestie non ce ne sono state più. O meglio ce ne sono state ancora: quelle di guerra come, in Urss, nella regione del medio Volga tra il 1921 e il 1922 e a Leningrado tra il 1941 e il 1943; quelle in tempo di pace tra Africa e Asia in anni anche recenti. Ma la costruzione per fronteggiare questo genere di crisi a cui l’Europa si è applicata negli ultimi cinquecento anni di fatto le ha debellate. E questa costruzione ha dato risultati a cui in gran parte si deve il welfare su scala mondiale e che, come dimostra il bel libro di Cormac à“ Grà¡da, sono andati ben oltre la sconfitta delle carestie.


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