Quell’abuso di potere che genera sfiducia e annichilisce il merito

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Una pratica cioè che va contro ogni principio vuoi di merito, vuoi di diritto, per far valere al contrario in modo estremo un criterio particolaristico: lo scambio di favori, il badare agli interessi di chi ci sta a cuore ignorando i diritti degli altri. È un atteggiamento esito insieme di arroganza e di sfiducia. Perché si basa sull’uso del potere – anche piccolo – per aggirare le norme, le graduatorie, le liste di attesa. Una mia collega anni fa spiegò che il vero potere di un professore universitario si misura dalla sua capacità  di mettere in cattedra qualcuno che non ne avrebbe i titoli. Ma l’affidarsi alla raccomandazione è anche insieme l’esito e la causa di una sfiducia generalizzata nella certezza delle norme e dei diritti. Il fatto che molte volte la raccomandazione non venga presa in considerazione, o non sia sufficientemente efficace, non ne indebolisce l’uso. Piuttosto sembra perversamente rafforzarlo, spingendo alla ricerca di “raccomandanti” più potenti. La competizione si sposta dal terreno dei diritti e del merito a quello di chi può contare su una rete di “raccomandanti” efficaci. Con la conseguenza non solo di produrre iniquità  e inefficienze, ma di creare una popolazione di benefattori e beneficiati. Proprio l’abuso di potere insito nell’uso della raccomandazione, coniugato con la sfiducia generalizzata che crea, spiega perché siano così scarse nel nostro paese le ribellioni, anche quando la violazione delle norme è sotto gli occhi di tutti e l’abuso di potere plateale – che si tratti di un concorso universitario truccato o di una legge ad personam voluta da chi è in grado di auto-raccomandarsi. Al massimo ci si lamenta perché qualcuno ci è passato davanti, o è riuscito ad aggirare le norme. Ma si dà  per scontato che le cose vadano così. Al punto che non si crede mai davvero che qualcuno ce l’abbia fatta per meriti propri, o avendo seguito le regole, con un effetto di squalificazione reciproca generalizzata. Del resto, chi osa denunciare una procedura truccata dall’uso della raccomandazione rischia di rimetterci le penne, perché disturba un clima di omertà  diffusa. Proprio l’uso particolaristico della raccomandazione per aggirare norme e procedure standardizzate, criteri di merito e persino per fare valere diritti, rischia di far considerare ogni tipo di raccomandazione come un abuso. Ed invece non è così. La raccomandazione nella forma di “referenze” è uno strumento indispensabile, nel senso che è richiesto formalmente (e non ne basta una sola), per concorrere a posizioni in alcune comunità  professionali o per accedere ad alcune risorse (una borsa di studio, ad esempio), soprattutto all’estero. Con essa, chi la fa garantisce, assumendosene la responsabilità , della reputazione della persona e delle sue qualità  rispetto alla posizione e/o al buon uso delle risorse cui aspira. Perciò deve godere egli/ella stessa di una reputazione nel settore di interesse. In questi contesti, una raccomandazione superficiale, o non congruente, o impropria, danneggia tanto chi la fa quanto chi ne è oggetto. Si perde facilmente la propria reputazione se non si fanno delle raccomandazioni serie e argomentate. Certo, fare una raccomandazione sulla base delle proprie competenze e di quelle di chi si raccomanda richiede più fatica che non raccomandare sulla base del proprio piccolo o grande potere. Perché ciò che si deve dimostrare non è, appunto, l’evidenza del potere. È un atto insieme professionale e di civismo responsabile; laddove la “raccomandazione all’italiana” è la manifestazione della irresponsabilità  e dell’assenza di civismo. Così come è il segnale di una società  malata e malfunzionante la necessità  di avere una raccomandazione per ottenere un servizio che dovrebbe essere erogato senza interventi esterni, o per ottenere una prestazione in tempi ragionevoli e prima che sia troppo tardi.


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