L’eredità  atomica

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FUKUSHIMA, 22 MARZO 2011 – «Paura delle radiazioni? Prima no. Ma ora sono terrorizzato. Non riesco a dormire, al pensiero di dover ritornare in quell’inferno. Ma devo tornarci». Eccoli gli operai di Fukushima, «eroi» (loro malgrado) per un giorno, una settimana, un mese forse, ma poi appestati per sempre. Siamo a Kawamasa, piccolo centro a una decina di chilometri da Fukushima. Abbiamo deciso di venire qui perché ieri la notizia su tutti i media nazionali e internazionali era che avevano trovato in alcuni ortaggi e nel latte prodotto in questa zona tracce di iodio 137. E il governo, con una decisione decisamente incomprensibile ne aveva decretato la non «esportabilità ». Proprio così. Non esportabilità . Non ritiro dal mercato, divieto di consumo, o di vendita. Solo di esportazione. All’estero – ovviamente – ma anche fuori dalla prefettura di Fukushima. Dove però si possono continuare a vendere e dunque a consumare. Non volevamo credere ai nostri occhi, quando siamo andati in giro per negozi e supermercati, e abbiamo visto buona parte degli ortaggi «contaminati», in vendita, a metà  prezzo. Ma che ci fosse qualcosa di strano l’abbiamo capito dall’atteggiamento dei negozianti, in genere riottosi a concedere interviste e soprattutto a concederci di riprendere la merce. Tranne uno, tale Futasuki, manager del settore frutta e verdure di un supermercato, purtroppo non ricordo il nome, nei pressi della stazione centrale di Fukushima. Il quale non solo accetta di essere intervistato, ma, come dire, difende la posizione. «Lo so, anche a me sembra assurda questa decisione, tipica dei politici. Però è così e a questo punto dobbiamo avere fiducia. Se non hanno ordinato il sequestro della merce significa che tutto sommato la contaminazione non è poi tale da renderne la consumazione pericolosa per la salute. Basta lavarla bene. Io non sono un tecnico, ma non penso che il governo consenta, solo per salvare la faccia ed evitare il panico tra la popolazione, di consumare prodotti pericolosi. Non posso, non voglio crederci».(…)
Torniamo al centro sfollati, istituito e di fatto autogestito all’interno della scuola elementare di Kawamasa. «Già  ci facevano dei problemi prima – spiega Mitsuo, un precario che lavora alla centrale – d’ora in poi dovremo nasconderci, o mentire sulla nostra provenienza. Nessuno vorrà  avere a che fare con noi». Mitsuo, non vuole che si usi il cognome, fra tre giorni torna in fabbrica. Al reattore numero 3, quello più pericoloso, visto che viene alimentato con il Mox, un carburante che contiene anche plutonio. Lavora a Fukushima da 5 anni, a contratto, stipulato con un’azienda esterna, specializzata in pulizie. Uno «zingaro» stabilizzato, insomma. Ogni tanto lo fermano, come da protocollo universale dell’industria nucleare.  Quando sta fermo, non viene pagato. In compenso la prossima settimana verrà  pagato il 30% in più. Che deve fare? «Gli tocca lavorare – interviene la moglie, Harumi – lo sappiamo che rischia, ma non ci sono alternative». Ma voi che siete là  dentro, non avete paura? Vi fidate dei vertici della Tepco? La mia domanda provoca un effetto ilare. Perfino tra i bambini. Tutti sorridono, come fanno i giapponesi quando non sono d’accordo. Ma molti si incazzano. Cosa che tra i giapponesi avviene di rado, ma se succede, non la smettono più. E succede sempre più spesso, negli ultimi tempi. Chissà  se è per questo, e non per il maltempo, che il premier Naoto Kan ha improvvisamente cancellato la sua seconda visita a Fukushima, che stavolta prevedeva una visita agli sfollati. Ad aspettarlo, qui a Fukushima c’erano parecchi cittadini inferociti. Più che per le radiazioni, per l’assenza di un progetto per il futuro e la paura di non farcela a tornare, di dover rinunciare per sempre alla loro terra, la loro casa, le loro abitudini. È lo tsunami «sociale», forse il più duro da sopportare, il più difficile da superare. Uno tsunami «invisibile», come le radiazioni, ma destinato a «spalmare» i suoi effetti negli anni a venire, ad avvelenare la salute, fisica e mentale, di migliaia e migliaia di giapponesi. È proprio di questi giorni la notizia, che la stampa giapponese ha riportato con poche righe nelle pagine interne, del suicidio di un vecchio contadino, pioniere della cultura biologica (molto diffusa ed avanzata, nella zona di Fukushima, considerata da sempre una sorta di «serra» del Giappone). Quando ha visto i suoi campi, le sue serre invase dall’acqua, probabilmente contaminata, non ha resistito. E si è impiccato.
Gli operai della Tepco, ce ne sono almeno una trentina qui, sono un fiume in piena. Molti sono vittime della maledetta tripletta, terremoto, tsunami ed emergenza nucleare. Ma la loro preoccupazione maggiore, al momento, è quella della casa. I giapponesi non amano starsene in ozio, e tanto meno l’idea di essere «parcheggiati» in un ricovero, sia pure più che decente.
«Le radiazioni? Certo sono un problema, ma io ho 74 anni, prima o poi dobbiamo morire tutti. Le radiazioni, ammesso che le abbia davvero subite, faranno effetto dopo 5, 10 anni. Ma io, nel frattempo, dove vado a vivere?»
Yoshio Konno è il più arrabbiato di tutti. Di professione fa il chiropratico, qui è stato eletto rappresentante del centro, perché sa parlare e trattare con le autorità . E’ lui che organizza i turni, risolve i problemi, e che parla con la stampa. Allora, siamo più tranquilli? La situazione sembra stia migliorando no? «Io non so di quale emergenza parli, se è quella della radioattività , rimandiamola a quando diventerà  una cosa seria. Per ora, è solo una minaccia. Una terribile minaccia. Ma pur sempre una minaccia. L’emergenza è un’altra. È quella di noi ‘rifugiati’. Noi vogliamo andar via di qui, ricostruire le nostre case, ritrovare il nostro lavoro. Sapete quanta gente viene licenziata, in questi giorni? Una caterva. E poi ci vengono a dire di non bere l’acqua? Mi fanno ridere, questi professori. Venissero qui, a chiederci scusa, innanzitutto. Molti di noi hanno dato la vita per questa maledetta azienda, e ora abbiamo diritto a un risarcimento».
Ma allora voi l’acqua la bevete? Il governo l’ha vietato, da alcuni giorni, dicono che sia radioattiva. «Balle. Noi la beviamo. L’acqua di Fuskushima è buonissima, non ha bisogno nemmeno di essere filtrata». E il latte, le verdure? Oggi il governo ha ordinato il blocco alle esportazioni di alcuni prodotti. Voi come vi regolate?
«Valutiamo di volta in volta. Ma per ora non abbiamo scelta, perché l’acqua in bottiglietta non possiamo permettercela, e un tè avremo pure bisogno di farlo. Viviamo alla giornata, in attesa di certezze. Per ora, solo parole, promesse, tanto fumo».
Usciamo dal centro alle 11 di notte, dopo aver imposto a tutti la nostra presenza e le nostre esigenze, per effettuare una diretta con Sky Tg24. La diretta la facciamo, ma tra mille difficoltà  tecniche che alla fine ci costringono a interromperla. Ma nessuno protesta, tutti ringraziano. E molti ci chiedono, ma in Italia il nucleare funziona? Quante centrali avete? Nessuna, rispondo, anche se c’è qualcuno che si sta dando da fare per ricominciare a costruirle. E dopo aver spiegato, a un pubblico interessatissimo, il significato del referendum abrogativo – istituto sconosciuto in Giappone – e distribuito un po’ di cioccolata ai bambini, raccogliamo le nostre cose e ce ne andiamo. Prima di uscire, ci offrono un mochi, i dolcetti di amido di riso, e un bicchiere di tè. «Prendete, sono avanzati. Ce li portano sempre ogni giorno, di nuovi», dicono. Noi tentenniamo, non tanto per i mochi, quanto per il tè. Ma alla fine lo beviamo. Siamo tutti giapponesi, oramai.


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