Quattro chiavi che spiegano lo stallo americano

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NEW YORK — Com’è possibile che un Paese che incassa duemila miliardi di dollari l’anno di tasse, con un Tesoro che ha sempre ottenuto capitali dal mercato a tassi irrisori e le cui imprese hanno ammassato ricchezza per altri duemila miliardi, rischi l’insolvenza come l’Argentina di dieci anni fa? Da dove viene questo mondo capovolto nel quale oggi il presidente Cristina Kirchner da Buenos Aires invita Barack Obama a fare ordine nei suoi conti? La dinamica di questa crisi è piena di variabili ma, incrociando i dati dello choc economico seguito al crollo finanziario del 2008 coi mutamenti radicali intervenuti nel tessuto politico americano e nel sistema della comunicazione, è possibile individuare almeno 4 fattori che rendono lo scontro in atto a Washington diverso da tutti gli altri.
La rivoluzione del tè
 I parlamentari della destra che si ispira ai «Tea Party» sono una minoranza (circa 60 deputati e 5 senatori) ma, in un Congresso nel quale la contrapposizione democratici-repubblicani si è radicalizzata, sono in grado di bloccare ogni decisione. Elemento determinante nella vittoria elettorale repubblicana alle elezioni di mid term del novembre scorso, ora trattano i vecchi leader del partito conservatore da sopravvissuti. E, ponendo la drastica riduzione della spesa pubblica in termini ideologici, rifiutano ogni compromesso. Considerano immondo negoziare. I democratici parlano — con espressione forte ma non priva di ragione — di un Parlamento esposto al ricatto di una minoranza. Lo pensano anche molti esponenti della destra moderata, ma chi ha osato dirlo, come John McCain, si è esposto ad attacchi furibondi. È anche vero, come ha spiegato bene Mark Skoda ieri al Corriere, che coi «Tea Party» il vecchio modo dei capipartito di raccogliere voti non funziona più. Tradizionalmente l’America ha, rispetto all’Europa, partiti più deboli e parlamentari più autonomi. I leader delle Camere da sempre convincono i dubbiosi offrendo qualche beneficio per i loro collegi. Coi «deputati del tè» questo modo di fare politica basato sul denaro pubblico non funziona più.
L’autorevolezza perduta
 Il presidente ha perso autorevolezza: il cantore della politica bipartisan non riesce a mediare né a far pesare la sua voce. Certo, la Casa Bianca ha margini di manovra limitati quando il Congresso le è ostile (come ha imparato a sue spese, negli anni 90, Bill Clinton). Ma nei momenti di stallo parlamentare il presidente pesa.
Stavolta, invece, Obama — fallito il negoziato col leader repubblicano Boehner — è costretto da 10 giorni a rivolgere appelli restando, per il resto, uno spettatore della battaglia parlamentare. Salvo essere richiamato in causa ieri sera dai leader del Congresso che non riescono a uscire dall’impasse. Conseguenza della sua demonizzazione da parte dell’ala repubblicana più aggressiva, ma anche della perdita di credibilità  di un presidente che aveva illuso il suo elettorato e il resto del Paese con promesse rivelatesi illusioni. Ha dovuto affrontare la crisi più grave degli ultimi 80 anni, è vero, ma lo sapeva anche prima di essere eletto. Ha usato la retorica kennediana del cambiamento, della speranza, dell’America che avanza verso nuovi traguardi. Buona negli Usa del 1960, un’epoca di crescita tumultuosa, non in tempi di relativo declino e di emorragie «asiatiche » di ricchezza e potere.
 La babele mediatica
 I parlamentari vagano come formiche impazzite anche perché non hanno più le idee chiare sull’orientamento dell’opinione pubblica e dei loro elettori. Nell’era delle tecnologie digitali sono saltati i vecchi meccanismi di costruzione del consenso. Non solo non ci sono più gli anchorman alla Walter Cronkite che orientavano l’America con discorsi sobri e convincenti. La moltiplicazione dei canali informativi, i toni sempre più esasperati del dibattito su Internet e dei talk show, le tv via cavo, da Cnn a Fox, che fanno rullare i loro tamburi 24 ore su 24 drammatizzando tutto per calcolo politico o esigenze editoriali, disorientano il cittadino-spettatore-elettore che reagisce, nei sondaggi, condannando in blocco Washington e i politici che la popolano. Un processo che ha subito una formidabile accelerazione dal 2008 in poi, anche per le campagne pubblicitarie finanziate soprattutto da miliardari conservatori.
L’altra faccia del debito
L’ultimo fattore, purtroppo determinante, è il cambiamento del ruolo del debito pubblico. Fino al 2008 prendere a prestito denaro era considerato — almeno nell’America che non aveva mai vissuto situazioni fiscali come quella italiana— un modo accettabile per ammortizzare una crisi momentanea del sistema produttivo. La crescita, poi, avrebbe provveduto a rimettere le cose a posto. Ora, col deficit record e la consapevolezza che crescere in futuro sarà  difficile mentre il debito è destinato a divenire insostenibile col pensionamento della generazione del baby boom, non è più così. Ieri il panico dei mercati era attenuato dalla convinzione che, anche se tutto fosse andato male a Wall Street, alla fine sarebbe arrivata la «rete di sicurezza» dello Stato. Rete che non c’è più. Anzi, è diventata una cappa soffocante.


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