Razzisti a Fermo

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 FERMO.Scrisse Luis Sepùlveda che un giorno, a Brema, vicinissimo al monumento alla favola che parla della città , scoprì un’iscrizione su una pietra: «Io sono stato qui e nessuno racconterà  la mia storia». La cosa provocò in lui la voglia di scrivere. È così che può nascere un racconto, dalla scoperta dell’altro da sé, vicino e in carne ed ossa, o dall’invenzione di un fantasma della vita e della memoria al quale devi dare un destino. Così è capitato che qualche giorno fa a Fermo, la città  dove vivo, due ragazzi somali sono stati insultati e picchiati all’uscita di un bar. Non è una cosa singolare nell’Italia governata da piduisti e bauscia, dove ministri dicono che ai bingo bongo bisogna sparare col bazooka, e dove l’ondata xenofoba è già  senso comune del luogo comune. Infatti, se digiti su qualsiasi motore di ricerca in internet la frase «ragazzo somalo picchiato» ne trovi a iosa di voci correlate: sono storie di violenza inaudita che non varcano mai la soglia della cronaca: «Ragazzo somalo di 25 anni, picchiato lo scorso giovedì sera a Ragusa», «somalo picchiato da tre sconosciuti a Firenze», «a Bari somalo picchiato da autista del bus: sei nero, non sali», «Napoli: due sedicenni picchiano una somala e le urinano addosso». Sono storie di persone che nessuno conosce, e di cui ci accorgiamo che esistono solo perché hanno subito una violenza. Come Kadar e Mohamed, che erano entrati al bar Primavera solo per comprare le sigarette dopo una giornata passata in una fabbrichetta che produce calzature, incollati alla manovia per otto ore, con partenza in corriera alle sei e mezzo del mattino e rientro alle diciannove.

Arrivare a casa loro accompagnato dal fotografo Andrea Polzoni è stato come risvegliare una storia che sarebbe altrimenti rimasta sepolta. Abitano un appartamento delle case popolari a ridosso dello stadio. Mi raccontano che il loro paese è allo stremo, vittima di una guerra civile devastante, e in più un conflitto sempre aperto con l’Etiopia, per questo sono fuggiti. Le loro storie, come quelle di molti rifugiati, si somigliano tutte. Kadar, quello che è stato malmenato, ha iniziato la sua fuga dalla guerra, dalla fame e dalle violenze dell’esercito nel 2008. «Sono scappato, in tanti paesi», racconta nel suo italiano stentato che decifro con difficoltà  guardando la sua bocca in una faccia magra di ragazzo, al centro del collo una collanina con i colori del suo paese e il profilo dell’Africa. «Sono fuggito in Eritrea, dove mi sono fermato tre mesi, poi verso il Sudan. Lì sono stato un mese, cercando un appoggio per proseguire». Dal Sudan attraversa il Sahara a bordo di una vecchia automobile scassata, un viaggio lungo e faticoso nel deserto, ma finalmente riesce ad arrivare in Libia. «Lì sono stato un anno», dice, «la mia vita in quel paese è stata molto difficile, perché ero senza documenti e non potevo andare in giro, non potevo lavorare. E poi avevo perso i contatti con la mia famiglia, non sapevo più nulla di loro». Kadar a vent’anni si ritrova solo sulla strada. Una notte, nel tentativo di derubarlo, uno sconosciuto lo aggredisce e gli punta il coltello all’altezza della gola. Porta ancora i segni dei tagli sulla pelle. Finalmente riesce a imbarcarsi, ma a poche miglia dalla costa libica il motore della carretta si rompe, cade addirittura in mare. Sono costretti a tornare indietro, Kadar viene arrestato. «Sono stato in carcere sei mesi, una cosa terribile». Solo nel 2009, dopo aver trovato i soldi sufficienti per un nuovo viaggio, riesce ad arrivare a Siracusa. Oggi è un rifugiato politico. «Siamo arrivati con il Gus, Gruppo umano solidarietà » interviene il suo amico Mohamed, sempre sorridente, più giovane di lui di solo un anno. «Io sono scappato nel 2007, perché studiavo ed ero stato chiamato alle armi dall’esercito per andare a combattere contro l’Etiopia». Pensare che un altro compagno che vive qui con loro, e che ogni tanto curioso viene a farci compagnia in questo tinello spartano al massimo coi mobili in formica, è un etiope di Addis. «Non volevo fare il soldato, così quando i miei genitori hanno saputo che dovevo andare a combattere al fronte, mi hanno aiutato a fuggire». Lui da Mogadiscio è espatriato in Etiopia, poi a Gibbuti, quindi il Sudan, l’attraversamento del deserto e l’approdo in Libia, lo stesso lungo viaggio di Kadar.
Pochi giorni fa uscivano dal bar di uno dei quartieri più popolari di Fermo, erano le dieci di sera, un gruppo di ragazzi si è avvicinato, sono volati degli insulti, poi uno di loro ha colpito in testa Kadar con una bottiglia, probabilmente uno del gruppo di nazistoidi che da tempo impestano il quartiere con scritte e simboli celtici, episodi più volte denunciati dai giovani del Collettivo Antifascista. In un sito giornalistico locale, per gettare artatamente acqua sul fuoco, hanno scritto che forse si trattava solo di una lite tra ubriachi, inutile enfatizzare, peccato che Kadir e Mohammed sono di religione musulmana, non bevono alcolici.
La mobilitazione non si è fatta attendere. I partiti del centrosinistra, ma soprattutto la Cgil, che ha messo a disposizione dei due ragazzi somali un legale, hanno indetto una conferenza stampa di denuncia. L’ex sindaco di destra Di Ruscio, attaccato da più parti, soprattutto da Rifondazione (anche per una casa comunale affittata al gruppo Aries, che si richiama ai valori della destra estrema) nega ogni responsabilità  della sua giunta, che pure ha governato in città  negli ultimi dieci anni desertificando i luoghi sociali per i giovani, progressivamente smantellati nel tempo. Ma certo non so che impressione può aver fatto a certe teste calde e rasate solo tre anni fa vedere il primo cittadino della città  dove vivono con la fascia tricolore, il giornalista Adolfo Leoni, direttore della radio vescovile Fermo 1 a fianco, ossequiare il condannato per mafia Marcello Dell’Utri, venuto qui a presentare i diari-patacche di Benito Mussolini. Non è stato certo un bell’esempio per nessuno.
La risposta della città  civile, di quella che vigila, si è chiusa con una stretta di mano simbolica e commovente. Peppino Buondonno, assessore alla cultura della Provincia con delega all’immigrazione, ha invitato Kadar e Mohamed per offrire loro la solidarietà  dell’intera comunità , e si sta attivando per iscriverli a un corso di italiano, perché sono ancora giovani e hanno voglia di continuare gli studi. «Il principio che ci guida è sempre quello», mi ha detto, «sentire nel profondo qualsiasi offesa contro chiunque, in qualunque parte del mondo», prendendo in prestito le parole di Ernesto Che Guevara.
A volte le storie, solo per il fatto di essere state raccontate, sono un piccolo risarcimento per chi ha subito umiliazioni, violenze, e vuole guardare avanti, continuando coraggiosamente a vivere in quel racconto vero, ma come in questo caso non meno avventuroso e a volte amaro, che di ora in ora, di giorno in giorno è scritto silenziosamente dai molti.


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