Una Casa Bianca meno statalista per colmare la voragine del debito

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E’convinzione diffusa — nei mercati, tra gli analisti politici, nelle cancellerie europee— che alla fine un accordo si troverà . I segnali emersi dal confronto ancora interlocutorio di ieri tra il presidente e il leader del Congresso confortano questa previsione, ma è bene non dar nulla per scontato perché stavolta tutta la partita si gioca in una zona di estremo pericolo, sia da un punto di vista politico che economico. Pericolo economico perché la gravità  della crisi ha per la prima volta materializzato ciò che era fino a ieri impensabile— il rischio di default degli Usa sul loro debito— e impone a democratici e repubblicani una «cura da cavallo» che, comunque verrà  modulata, avrà  conseguenze non irrilevanti sulla crescita e un impatto anche sull’Europa.
Ma c’è pure un grosso pericolo politico perché la «grande recessione» , la perdita di otto milioni di posti di lavoro e l’esplosione del debito pubblico Usa hanno prodotto una radicalizzazione del dibattito americano e una ventata populista che stanno rendendo tutto più difficile. La speranza è che, pur decisi a negoziare fino all’ultimo con grande vigore, democratici e repubblicani in queste ore si stiano rendendo conto che non possono tirare oltremisura una corda che rischia di spezzarsi anche prima della fatidica scadenza del 2 agosto: la data oltre la quale, in assenza di un innalzamento del tetto del debito federale, il Tesoro rischia l’insolvenza. Con conseguenze oggi imprevedibili. A un primo sguardo i segnali non sembrerebbero incoraggianti: i repubblicani continuano a chiedere tagli di spesa enormi, sacrifici anche a carico dei più poveri, e rifiutano di prendere in considerazione ogni incremento del prelievo fiscale o di chiedere un contributo dei ceti più abbienti al risanamento delle finanze pubbliche. E’una situazione che ha spinto perfino David Brooks, celebre columnist conservatore del New York Times, ad accusare i repubblicani di aver perso il loro storico buon senso, il pragmatismo politico indispensabile per governare.
 I democratici, nota Brooks, hanno accettato di varare una manovra basata per tre quarti su tagli di spesa mentre solo un dollaro su quattro dovrebbe venire da maggiori entrate. Ma, anziché sottolineare questo loro indubbio successo politico e passare all’incasso, i repubblicani restano bloccati sul «no» a ogni nuova entrata, frutto di puro oltranzismo ideologico. Il politologo progressista E. J. Dionne, molto più allarmato di Brooks, descrive sul Washington Post un quadro politico da brivido: «Il Senato in questi giorni ricorda i tempi della guerra dei Balcani solo che stavolta non c’è, in mezzo, una forza di peacekeeping» . In realtà  i negoziati, sia pure a fatica, vanno avanti. Domenica scorsa il capo della maggioranza repubblicana alla Camera John Boehner ha discusso riservatamente con esponenti della Casa Bianca un piano che prevede un aumento delle entrate fiscali di mille miliardi di dollari da realizzare nel prossimo decennio senza aumento delle imposte ma solo riducendo aree di esenzione (detrazioni d’imposta) e gli sconti concessi negli anni scorsi.
 Il leader repubblicano accetterebbe di sfidare la prevedibile furia della destra radicale dei Tea Party (che ha già  giurato di boicottare la sua rielezione al Congresso nel 2012) perché Obama sarebbe disposto a mettere sul piatto tre miliardi di tagli di spesa: risparmi da realizzare sempre nell’arco di dieci anni, intaccando anche Medicaid e Medicare, la sanità  pubblica per poveri e anziani, e le pensioni federali della Social Security. Una manovra da quattromila miliardi rassicurerebbe di certo i mercati sulla capacità  dell’America di riprendere il controllo delle sue finanze dissestate, ma, in un anno che è già  di volata elettorale, lascerebbe aperti i dubbi circa l a reale praticabilità  di una simile ricetta e il suo sfruttamento politico. Per applicare una simile «cura da cavallo» in modo graduale, per evitare choc sociali e ulteriori freni a una crescita già  estremamente anemica, sarebbe necessario un accordo davvero «bipartisan» , gestito senza strappi da una sorta di «grande centro» che tagli a destra i Tea Party e a sinistra i liberal, già  convinti che Obama ha ceduto ai conservatori su tutta la linea.
 E’verosimile che ciò possa avvenire nell’anno che precede le presidenziali e in un clima fin qui caratterizzato da una crescente polarizzazione? Il dubbio è tutto americano, ma la questione sta diventando rilevante anche dall’altro lato dell’Atlantico, visto che fenomeni di radicalizzazione politica cominciano a diffondersi anche in Europa. Dove gli insuccessi del capitalismo finanziario alimentano anche discussioni sulla riscoperta dell’interventismo pubblico da parte dei delusi del liberalismo economico. Ma, al di là  dei raffinati dibattiti politici e ideologici, avrà  ancora senso discutere di questo in Paesi ad elevato indebitamento pubblico come il nostro se perfino il presidente progressista della più grande democrazia dell’Occidente, che ha ancora tra le mani l’unica vera valuta di riserva del mondo, sceglierà  la linea del rigore assoluto chiudendo tutti i rubinetti dell’assistenza?


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