Francia, la prima della classe si scopre in bilico sul deficit

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 Ha fatto bene il presidente Nicolas Sarkozy a interrompere le ferie e rientrare di corsa a Parigi? La domanda ha due risposte che racchiudono il problema francese e, più in generale, le diverse reazioni della politica alla turbolenza finanziaria internazionale. Ha fatto bene, perché ha stroncato le indiscrezioni sul declassamento e ha colto l’occasione per rendere più urgenti misure fiscali e tagli della spesa pubblica che i francesi sono per tradizione e interesse poco disposti a subire. Ha (forse) fatto male, poiché a livello psicologico ha accentuato nell’opinione pubblica la sensazione che la Francia corra (o avesse corso) davvero il rischio di un giudizio negativo delle agenzie di rating, con conseguenze drammatiche, almeno nell’immediato, sulla Borsa di Parigi.
La riunione d’urgenza all’Eliseo ha lanciato un segnale tranquillizzante, perché accompagnato da dimostrazione di reattività  del potere politico, ma l’allarmismo della Borsa e dei mercati ha contribuito a rilanciare ricorrenti e spietate analisi di alcuni economisti (il più noto è Nicolas Bavarez) secondo i quali le finanze pubbliche dei nostri vicini, ormai da alcuni decenni, non godono buona salute per una combinazione negativa di diversi fattori: gigantesco aumento del debito (1.646 miliardi di euro, pari all’82,3 per cento del Pil), deficit di bilancio oltre il 7% (quasi il doppio dell’Italia), bassa previsione di crescita, perdita di competitività  delle imprese e progressione delle spese sociali, in particolare per sussidi di disoccupazione e assistenza malattia con «buchi» dell’ordine di decine di miliardi negli organismi preposti.
I francesi fanno più vacanze di molti vicini europei, vanno in pensione prima di tutti, godono di servizi pubblici di buon livello e di alta protezione sanitaria e sociale. Ma, nonostante alcune riforme introdotte dal presidente Sarkozy, il «modello» resta molto costoso ed eccessivamente burocratico. Inoltre, i propositi di razionalizzazione della spesa hanno solo sfiorato settori che la Francia considera per scelta e tradizione di primaria importanza: difesa, diplomazia, istruzione, cultura, ricerca. La Francia è difficilmente riformabile, vuoi per le forti resistenze corporative, vuoi per il forte attaccamento dei francesi al ruolo dello Stato protettore, erogatore di servizi, con un tasso di sprechi e corruzione abbastanza contenuto.
Per molte ragioni, sarebbe fuori luogo un atteggiamento autoconsolatorio che porti a considerare la Francia «nella stessa barca» dell’Italia di fronte alle turbolenze dei mercati e al rischio declassamento. È vero che la Francia non ha tutte le carte in regola per dettare, in coppia con la Germania, l’agenda politica del risanamento dei partner europei. Ma è anche vero che l’asse con Berlino resta fondamentale nelle più importanti decisioni a livello europeo e lo sarebbe nell’eventualità  di scelte ancora più traumatiche. Se prendessero corpo le voci di euro a due velocità , la Francia sarebbe nel plotone di testa, per ragioni storiche e politiche, oltre che per solidità  e stabilità  economica.
La Francia può vantare il più alto tasso demografico in Europa (un indice da non sottovalutare anche sotto il profilo economico) un efficiente sistema di trasporti e d’infrastrutture, un alto livello di produttività  e preparazione della manodopera, un forte sistema bancario e assicurativo e un clima d’impresa che attira investimenti e capitali stranieri. L’alta conflittualità  sindacale è circoscritta al settore pubblico, raramente si allarga al settore privato.
Se si osserva la struttura del debito francese, si nota che per quasi due terzi è detenuto da non residenti in Francia (40 per cento non residenti in Europa). Può essere una conferma di fiducia nel sistema Paese, anche se in questa fase pesa la forte esposizione delle banche francesi.
In conclusione, ad insinuare un «rischio Francia» contribuiscono le prospettive politiche dei prossimi mesi piuttosto che valutazioni di ordine economico. I propositi di riforme sociali e di tagli della spesa pubblica si scontrano infatti con l’agenda elettorale di Sarkozy, in vista delle presidenziali di primavera. Le speranze di rielezione non vanno d’accordo con la crisi economica e il malcontento dei ceti medi e popolari. Ed è improbabile che l’opposizione socialista faccia sconti, collabori con l’esecutivo o addirittura accetti di approvare una norma costituzionale sul pareggio di bilancio. Secondo un recente studio, i francesi si fidano più della Merkel, dell’Europa e del Fondo monetario che non dell’azione di Sarkozy. Ma la disaffezione nei confronti del presidente non è una notizia di oggi e non dipende dai mercati.


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