Birmania, stop alla diga dello scandalo prima vittoria dei cittadini sul regime

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BANGKOK – Ciò che non sono riusciti a ottenere né Aung San Suu Kyi con i suoi 15 anni di prigionia né i monaci con la loro rivolta di Zafferano del 2007, potrebbe succedere in nome della difesa del Fiume Madre dei birmani. È un intero Paese, a prescindere dalle ideologie e dalle guerre feroci del passato, che si trova unito da una battaglia ambientalista e allo stesso tempo nazionalista, contro il grande vicino cinese che stava per costruire la prima diga mai realizzata lungo il corso del sacro Fiume Madre, l’Irrawaddy. Ieri il presidente Thein Sein, che da tempo cerca di accreditarsi come la colomba del regime, ha annunciato solennemente che l’impianto idroelettrico di Myitsone nello Stato settentrionale dei Kachin non si farà , e che sarà  rescisso il contratto con le imprese di Pechino come chiedevano le opposizioni, Aung San Suu Kyi in testa.
È stata una sfida al grande protettore di un tempo, il segnale che lo strapotere della Cina nell’economia nazionale – dalle risorse naturali agli appalti per le infrastrutture, ai prezzi delle verdure – ha raggiunto un limite pericoloso, e che il nuovo governo, dopo quasi cinquant’anni di dipendenza dal potente vicino, potrebbe guardare altrove per assistenza e aiuto. Non a caso un alto funzionario della Segreteria di Stato Usa – che applicano le sanzioni economiche più severe – ha detto che «venti di novità  stanno chiaramente soffiando sulla Birmania».
La decisione del governo di Naypyidaw è stata presa anche sulla base di un’accorata lettera al presidente di Aung San Suu Kyi in persona. La Nobel per la Pace era stata però solo una delle tante voci contro questo progetto da 2,5 miliardi di euro, che avrebbe dislocato 12mila persone e decine di villaggi, per fornire elettricità  solo alle province cinesi. Già  erano scesi in piazza – senza trovare eccessiva resistenza a differenza del passato – gruppi di pressione civile, Ong e una larga fetta della minuscola classe media. È la prima volta da quando è stato eletto (figurarsi nella storia della dittatura dal 1962) che il nuovo governo “civile” si schiera così apertamente sullo stesso fronte delle opposizioni. La protesta contro l’avidità  cinese a scapito delle popolazioni dell’Unione di Myanmar era stata così collettiva da far parlare apertamente di una “primavera birmana”, pronta a sbocciare dopo il lungo inverno della dittatura. Una tesi contestata da molti esponenti dei Diritti umani, e dalla stessa Aung San Suu Kyi, che ha usato parole di «cauto ottimismo» per il futuro, ma ha invitato a non prendere ogni novità  come un «cambiamento necessariamente per il meglio».
Ma con il no alla diga potrebbero anche crearsi le condizioni per un ulteriore rottura della sfera di influenza di Pechino. Secondo i più pessimisti, le aperture di Thein Sein e il suo ruolo di volto nuovo della transizione, servirebbero solo a far assegnare al Myanmar nel 2014 la presidenza di turno del circolo esclusivo dei Paesi del Sud Est asiatico, l’Asean. Esiste però anche la possibilità  sempre meno remota di un allentamento delle sanzioni occidentali (l’Europa ne ha già  alleggerita qualcuna) che hanno finora isolato economicamente il Paese «gettandolo nelle braccia di Pechino», come hanno detto anche molti uomini d’affari birmani vicini al passato regime. Per questo forse il governo ha tollerato le critiche della stampa sul ruolo della giunta militare nel progetto della diga. Ha anche mandato segnali di speranza per i 2000 dissidenti in prigione, annunciando un’amnistia «appena possibile». «Stiamo cominciando a vedere l’inizio di un cambiamento», ha commentato Aung San Suu Kyi dopo una inedita cena col presidente Thein Sein e i primi colloqui ufficiali con i ministri del suo gabinetto. Forse non è ancora primavera, ma qualcosa si muove.


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