I colori-gioiello delle Cinque Terre traditi dall’incuria

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Le Cinque Terre sono una specie di iperLiguria, un concentrato stupefacente di quello che questa costa verde e profumata è stata lungo i secoli, prima che le seconde case e gli insediamenti industriali la scempiassero per quanto è lunga. A parte il mare, ogni cosa è piccola, preziosa e rubata al monte.
Guardando dalla barca, la presenza umana appare minuziosa e delicata come un intarsio. Come se le case e la ferrovia, i tunnel e le strade, i paesi e i porti avessero scelto di non imporsi al paesaggio, e piuttosto di aderirvi, di assumerne la forma.
Nei paesi dalle case variopinte che oggi stentiamo a riconoscere, coperti di fango, ci sono piazze grandi come camere, dove il pubblico e il privato, l’ingresso delle case e i tavoli dei bar, non hanno separazione visibile, confine percepibile. E le strade sono budelli che si arrampicano sopra e sotto le case, e al posto delle automobili circolano i profumi di rosmarino e focaccia, salmastro e pesce fritto. A Tellaro (appena più a Est, oltre La Spezia) la piazza minuscola è anche banchina del porto ed è anche terrazza di una casa privata, la pietra è la stessa per i pochi bagnanti stesi al sole, per i gerani, ci ho visto convivere tranquilli perfino cani e gabbiani. In molti tratti di Liguria lo spazio da abitare è così ridotto che o ci si abbaia l’un l’altro, anche tra umani, o ci si affida docilmente alla convivenza, e si diventa in qualche maniera comunità .
Sopra i paesini le Cinque Terre sono un mondo vasto di foreste e di sentieri, di profumi e di solitudine, i camminatori sono parecchi ma difficilmente diventano massa dove non ci sono funivie a scaricarli come un gregge: e questi sono posti impervi, scorbutici, o li guadagni in barca o sudando parecchio, a piedi e in bicicletta. La fatica – per fortuna – fa da vaglio severo agli eccessi del turismo di massa. Di notte la rarefazione delle case e delle luci rende ancora profondo il buio, abbastanza profondo da vedere le stelle brillare.
Amare le Cinque Terre e frequentarle significa anche prendere atto, per contrasto, della catastrofe che la più spietata alluvione di tutti i tempi, quella del cemento, ha prodotto a est e a ovest, oltre La Spezia e verso Genova. E poiché è al cemento che si imputa di avere trasformato ogni vallone e ogni lungofiume ligure in un cannone d’acqua e fango puntato contro le città  e le case, ci si domanda come sia stato possibile che l’alluvione abbia colpito così duramente proprio il lembo di Liguria meno cementificato, e più integro.
A parte l’eccezionale potenza della tempesta, un forte indizio viene dal presidente della Regione, Claudio Burlando: «Questa volta il colpevole non è ciò che l’uomo ha fatto, ma ciò che l’uomo non ha fatto». Non il cemento, dunque, ma l’abbandono al suo destino di un territorio così forgiato dall’uomo da non potere più fare a meno della sua mano, della sua presenza costante. Le Cinque Terre così come sono (e torneranno a essere, una volta vinto il fango) non esistevano, così come non esisteva la Liguria, prima che generazioni di contadini le erigessero pietra su pietra e terrazza su terrazza, migliaia di chilometri di muri a secco, migliaia di ettari ritagliati sulle pareti scoscese, vigna e olivo da curare, e canali di scolmo da pulire, fossi da mantenere pervi, boschi da rastrellare. In pochi altri posti al mondo il paesaggio e la natura sono il risultato di un così paziente artificio.
L’abbandono progressivo dei campi, dei crinali, della montagna (ci sono zone dell’Appennino dove la popolazione è passata da cento a dieci) non ha rappresentato solo una repentina mutazione antropologica e sociale, in Liguria come in tutta Italia. Ha indebolito a morte il territorio, rendendolo sempre più esposto agli squassi del clima, meno sorvegliato, più vulnerabile.
È come se l’Italia fosse divisa, a macchia di leopardo, in due differenti Paesi: uno sopra il quale accanirsi a oltranza, quello edificato (ben più esteso di quello edificabile). L’altro da abbandonare al suo destino, quello agricolo, ex agricolo e boschivo, quello che non promette lucro a breve o medio periodo, quello che si pretende esista e resista senza che lo sguardo e le cure dell’uomo lo considerino. E si vendica vomitando fango, mangiandosi il reticolo di fossi che lo innerva e lo preserva, smottando, affogandoci come formiche.
Nel frattempo, proprio mentre il terreno perde forma e l’uomo smette di progettarlo e proteggerlo (i due verbi, oltre che assonanti, sono in questo caso quasi sinonimi…), la tropicalizzazione del clima aggrava gli effetti dell’incuria. Lunghi periodi di siccità  (a Nord Ovest non pioveva da tre mesi…) induriscono il terreno, specie quello incolto, gli impediscono di trattenere l’acqua assorbendola. Buon senso e buona politica vorrebbero che la sola Grande Opera che l’Italia riconosce urgente, vitale per il suo futuro, è il governo del territorio, la messa in sicurezza di tutto ciò che scivola, frana, si sgretola. I drenaggi, la pulizia dei fiumi e dei greti, il rinforzo degli argini (in Liguria se ne sono visti friabili come grissini), la manutenzione dei fossi che sono il minuto, umile sistema venoso della terra: ecco qualcosa di dettagliato e insieme enorme, “local” e “global” nello stesso tempo e nella stessa fotografia aerea, che cambierebbe in meglio non solo lo stato fisico del paese, ma le sue condizioni psicologiche, la percezione di se stesso come è veramente, metro per metro, valle per valle, paese per paese, bosco per bosco.
Pochi pezzi d’Italia come le Cinque Terre riescono a dare il senso dello splendore e della delicatezza di un paese che non ha la sua identità  paesaggistica nelle grandi estensioni selvagge, nella natura libera da ogni vincolo; ma nello stretto intreccio tra natura e presenza umana, tra il corso della natura e il lavoro dell’uomo. Tutto, nelle Cinque Terre, suggerisce la necessità  della cura, dell’attenzione, della fatica (anche intellettuale) che serve a far sopravvivere la vigna tra le rocce, e gli uomini sopra e sotto gli strapiombi. Ma è una fatica che siamo ancora in grado di affrontare, non solo come classe dirigente, dico proprio come cultura diffusa, come idea corrente del nostro paese?


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