Egitto, ancora piazza Tahrir

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La tensione è tornata a salire in vista delle prossime, complesse, elezioni. In primis elezioni davvero cervellotiche nel meccanismo di voto, spalmato su tre mesi. Il 28 novembre prossimo, infatti, si recheranno alle urne i cittadini di nove governatorati (comprese Alessandria e Cairo) del Paese per eleggere la Camera Bassa del Parlamento. Dove un candidato non vince al primo turno è previsto un ballottaggio il 5 dicembre. Il 14 dicembre, poi, voteranno altre nove governatorati, con eventuale ballottaggio fissato il 21 dicembre. Il 3 gennaio 2012 sarà  il turno degli ultimi nove governatorati, con ballottaggio fissato per il 10 gennaio. Il 29 gennaio inizieranno le operazioni di voto per la Camera Alta (Shura), con un meccanismo di sei tappe uguale a quello della Camera Bassa. L’ultimo, eventuale, ballottaggio avrebbe luogo l’11 marzo. A quel punto, con il Parlamento nel pieno dei suoi poteri, inizierebbero le procedure per l’elezione del Presidente della Repubblica, che avverrebbe non prima della fine del 2012 o, addirittura, all’inizio del 2013.

L’Egitto avrebbe un nuovo presidente quasi due anni dopo la fine del regime di Mubarak, periodo nel quale i poteri presidenziali resterebbero, come è accaduto fino a ora, nelle mani della Giunta militare presieduta dal generale Mohammed Tantawi. Ecco il punto di rottura con i dimostranti: nessuno vuole che la ‘transizione’ militare duri tanto a lungo. Gli incidenti sono iniziati tempo fa, ma da due giorni la tensione è alle stelle.

Una violenza che introduce un elemento nuovo nella politica egiziana: quello della frattura tra popolo ed esercito. Fin dalla caduta della monarchia nel 1952, per mezzo di un colpo di Stato dei Liberi Ufficiali, guidati dal generale Muhammad Naguib e del colonnello Gamāl Ê¿Abd al-Nasser che proclamarono la repubblica, deponendo la dinastia fondata da Mehmet Ali dopo l’Impero Ottomano. Ecco che, da allora, per gli egiziani le forze armate sono una propaggine della sovranità  popolare, un’armata democratica, alla quale fare riferimento nei momenti bui. Alla morte di Nasser il potere finì a Anwar al-Sadat, l’uomo della pace con Israele, assassinato nel 1981 e sostituito da Hosni Mubarak. Dopo il rovesciamento di Mubarak, quindi, non si è mai spezzato questo cordone ombelicale tra popolo e militari.

Al punto che al culmine dei festeggiamenti in piazza Tahrir l’11 febbraio scorso, i militari stessi abbracciavano i dimostranti, solidarizzando fino in fondo dopo aver tenuto – per molti giorni – un atteggiamento ambiguo verso la protesta. Perché, in fondo, Mubarak era uno di loro. Fin dall’inizio, la resa di Mubarak è parsa frutto di una mediazione condotta dall’abile Tantawi, che non a caso non ha messo in cima alla lista dei suoi pensieri il processo al vecchio rais.

Questo rapporto storico e profondo tra il popolo egiziano e i suoi militari si è logorato, lentamente, in questi mesi. I ritardi nelle commissioni che dovevano fare chiarezza sugli eccidi di febbraio, l’accelerazione subita invece dalla inchieste su veri o presunti fondi esteri ai rivoltosi, l‘assenza di un vero colpo di spugna della vecchia classe dirigente. Tutti elementi di una lunga, lunghissima transizione, che per i generali rientra in un riassetto dello Stato che non prevede bruschi colpi di urna e che passa, dopo lo sdoganamento di Washington, in un accordo con i Fratelli Musulmani ripuliti delle frange più estreme. Il popolo di piazza Tahrir lo ha capito ed è tornato in piazza, ma questa volta i soldati e i dimostranti non si sentono più parte dello stesso destino.


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