Perché in politica torna lo slogan della rottamazione

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«Non bisogna partire dalle buone vecchie cose ma dalle cattive cose nuove». Si potrebbe ricominciare (e finirla lì, magari) con la frase di Bertolt Brecht. Le cose vecchie possono anche essere buone, le cose nuove possono anche essere cattive, e da queste dobbiamo ripartire. Naturalmente, c’è una superstizione dell’aggettivo: nuovo. Quando i nomi che finiscono in ismo chiamano in soccorso un aggettivo è ora di mettere in discussione il nome, non l’aggettivo. Certi aggettivi prendono la mano a chi li pronuncia e si proclamano nomi: nuovismo.
Per fare di ciò che è nuovo un valore, occorre prendersela con ciò che è vecchio. Col chiaro di luna. È un fatto che la maggioranza degli umani oggi viventi è nata dopo che un uomo è sbarcato sulla luna, per esempio Matteo Renzi. Solo tre anni dopo, peraltro. Bersani, quando successe, aveva già  21 anni, e dunque si ricorda della luna silenziosa e inviolata (con la dieresi, tutt’e due). Chi non si ricorda di una luna mai calpestata da piede umano è incline a un passo più baldanzoso, e invadente. Succede anche il contrario, ma è naturale l’associazione fra nuovo e giovane.
Può darsi che fra i giovani – dove sono esuberanti, di là  dal Mediterraneo, o pochi, di qua – e gli antenati, si vada compiendo una secessione radicale quanto e più di quella del ’68. Succede che i figli non sopportino di essere grati ai padri, e rinfaccino loro di averli messi al mondo senza interpellarli. Specialmente a un mondo in cui al momento di nascere si ha già  addosso un debito di 30 mila euro. Si nasce a debito, è l’eredità  degli antenati. È difficile da accettare, per i giovani italiani o spagnoli o ateniesi. E poi si viene a un mondo che gli antenati – una catena enormemente più lunga, magnanima e inconsapevole fino a un certo punto, avida e accanita poi – hanno consumato fino a metterlo a repentaglio.
La leadership del Pd è spesso attaccata ai privilegi e, ciò che rende più ottusi, alle abitudini. È piena di persone brave, ma non sa fare posto. Sente l’irruenza, ma preferisce ignorarla, rinviare, obiettarle con la complessità , la complicazione. Così favorendo un vittimismo giovanile. A vent’anni è brutto lagnarsi del futuro rubato. Il futuro aspetta di essere preso per il bavero e intascato da chi ha vent’anni. E come ci si comporterà  coi debiti ereditati senza colpa? Rimproverandoli ai padri (con attenzione, bisogna essere indulgenti coi padri, e grati ai nonni, di cui si spendono gli ultimi risparmi) e facendoli interdire, se continuano d’azzardo: ma impegnandosi in solido a pagarli, i debiti, quelli verso il pianeta prima di tutto, e i più poveri del pianeta. Cui era rubato futuro e presente fino a poco fa (e ancora) senza che ci si indignasse più di tanto, finché la barca andava.
Ho detto vent’anni, non a caso. Suonerebbe ridicola la frase di Paul Nizan se fosse allungata di un decennio: «Avevo trent’anni, e non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età  della vita». Rimbaud a 37 anni non scriveva un verso da sedici, aveva commerciato avorio armi e forse schiavi – e morì. La longevità  contemporanea non toglie a un ventenne i suoi diritti, e se un ventenne italiano se ne dimenticherà  arriverà  un diciassettenne afghano legato sotto un tir a ricordarglielo.
All’età  in cui Rimbaud morì, Renzi ha ogni diritto di giocarsi la sua partita. Non assomiglia a Berlusconi. Ha 40 anni e 40 miliardi di meno, e un’altra idea delle donne. Gira per Firenze in bicicletta e senza scorta. Per mandare Renzi a quel paese, bisognerà  trovare argomenti più personalizzati. Chissà  che cosa ha in testa: se è davvero ambizioso, tirerà  a restar sindaco di Firenze. Se lo è meno, mirerà  al governo. Magari le circostanze lo indurranno a rigiocare sulla scala nazionale la scommessa che gli fece vincere le primarie fiorentine: 50 per cento merito suo, 50 dei concorrenti del Pd, bravi professionisti allo sbaraglio. Un vantaggio ce l’ha sulla pletora di aspiranti alla rendita di qualche punto percentuale: lui vuol portare via il banco. Ma quel malaugurato nome di rottamazione – il nome giusto per le cose è l’opposto, riparazione, e le persone non si rottamano – garantisce che non sia in grado di raccogliere la maggioranza dell’attuale opposizione. L’ostilità  ai sindacati è compiaciuta e spesso infondata: chiedete a piccoli e medi imprenditori se sono i sindacati a non farli lavorare o la burocrazia dei funzionari. A meno che lo chiediate a Marchionne, che a mortificare i sindacati è riuscito, ma anche a uscire dalla Confindustria, dal mercato, dalla Borsa e dall’Italia.
I suoi 100 punti sono troppo scolastici per far sentire il cambio d’epoca che riguarda il destino della terra, i rapporti di pace e di guerra fra vecchi e nuovi continenti, lo scandalo delle disuguaglianze. Però nei suoi avversari professionali, o nei suoi fautori per conto terzi, non c’è molto di più, mediamente. E nei più avvertiti dei movimenti c’è ormai l’aspettativa del default, mutata in speranza apocalittica. Una volta avvenuto lo sgombero – questione di ore, spero – si tratterà  di ben altro che di una ex maggioranza e una ex opposizione senza più Berlusconi e Bossi. Ci sarà  un rimescolamento colossale e largamente ingovernato. L’ibernazione sta tenendo tutti nei loro angoli, come in una partita di mosca cieca. Si sposteranno di colpo, e la mosca non ci sarà  più. Il nuovo sarà  quella cosa lì, un casino, la normalità .


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