Se anche la Cina è alle prese con i subprime

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In particolare, quelli dagli Stati Uniti sono scesi del 23 per cento a 2,74 miliardi di dollari. Di piuÌ€, sempre dati governativi parlano di un trend tutt’altro che ottimistico per l’export cinese nel 2012, della diminuzione del margine di crescita commerciale in dicembre, del calo del 2 per cento dell’export cinese in ognuno degli ultimi tre mesi di quest’anno, a fronte di un aumento delle importazioni del 5 per cento rispetto all’export. Quindi, il deficit commerciale comincia a fare capolino anche in Cina, la locomotiva del mondo rallenta e rimanda sinistri scricchiolii. Sempre in novembre, la massa monetaria M2 eÌ€ calata del 12,7 per cento, il peggior arretramento da dieci anni a questa parte. I nuovi prestiti sono calati del 5 per cento sulla basa mese-su-mese e la Banca centrale ha allentato di molto la cinghia, tagliando nettamente le richieste di riserva per le banche per la prima volta dal 2008. Insomma, anche in Cina comincia a scarseggiare la liquiditaÌ€. Lo confermava ieri il China Daily, che dava notizia del fatto che i due principali creditori provinciali del paese, la Hunan Provincial Expressway Construction Group e la Guangdong Provincial Communications Group stanno ritardando i pagamenti di 3,11 miliardi di yuan di interessi, mentre il totale accumulato da parte dei principali 11 debitori del paese eÌ€ di 30,16 miliardi, nonostante all’inizio di novembre 55 province cinesi fossero tornate sui mercati di capitale per racimolare fondi. La Borsa di Shanghai ha perso il 30 per cento da maggio ad oggi e addirittura il 60 per cento dai picchi del 2008, in termini reali piuÌ€ o meno quanto perso da Wall Street tra il 1929 e il 1933. Insomma, il grande capo dei Brics non scoppia affatto di salute ma il mercato non sembra prezzare in maniera seria questa situazione e sottovaluta la probabile reazione dei Brics all’avvitarsi della crisi: ovvero, scaricare merci e innescare uno shock deflazionario per il resto del mondo. Tanto piuÌ€ che, a dispetto delle richieste statunitensi, Pechino sta pensando a una svalutazione dello yuan il prossimo anno, a fronte del continuo apprezzamento in area 4 per cento di quest’ultimo trimestre. E, in effetti, a fronte di riserve per 3,2 triliardi di dollari, la Cina conosce da tre mesi un continuo calo, nonostante il surplus commerciale: insomma, i soldi cominciano a prendere il volo verso l’estero. E le riserve non possono essere reintegrate per stabilizzare il sistema bancario interno, poiché significherebbe rimpatriare denaro ora investito in debito Usa e dell’eurozona e cosiÌ€ spingere ulteriormente al rialzo lo yuan. I consumi sono scesi dal 48 al 36 per cento del Pil dalla fine degli anni Novanta, mentre gli investimenti sono cresciuti del 50 per cento: un tasso insostenibile che ora reclama il conto. I ricchi cinesi, non potendo investire all’estero e con gli interessi bancari al -3 per cento in termini reali, compravano due, tre appartementi come investimento per immobilizzare il loro capitale. Ora peroÌ€, a fronte di una ratio tra stipendi e costo delle vita al livello mortale di 1:18, molti di quegli appartamenti, quasi sempre sfitti, stanno gonfiando una bolla interconnessa direttamente con il sistema bancario. Si svende quindi, soprattutto nelle cittaÌ€ costiere. Per l’Fmi i prestiti sono raddoppiati raggiungendo il 200 per cento del Pil negli ultimi cinque anni, inclusi quelli fuori bilancio: stiamo parlando di un intensitaÌ€ di crescita del credito doppia rispetto a quella dei cinque anni che precedettero la bolla dell’indice Nikkei a fine anni Ottanta o quella legata ai subprime tra il 2002 e il 2007 negli Stati Uniti. E, infatti, nella nuova classifica mondiale degli istituti bancari in base al loro market cap, si scopre che le prime tre sono cinesi: ICBC, CCB e Agricoltural Bank of China hanno surclassato tutti, con i due giganti Usa Wells Fargo e JP Morgan rispettivamente al quarto e sesto posto. Accadde cosiÌ€ anche al Giappone nel 1991, poi fu crisi nera.


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