Sony, torna l’incubo della class action

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. Tutte le future dispute legali devono essere condotte solo su base individuale, si legge nel regolamento, dove si specifica inoltre che il servizio non sarà  sempre disponibile e privo di errori. E chi non sottoscrive viene estromesso dal servizio. Ai consumatori il nuovo regolamento, già  entrato in uso negli States, non è andato giù e infatti un’altra azione legale collettiva è partita dalla California contro il colosso nipponico dell’intrattenimento accusato di «pratiche commerciali scorrette» proprio in virtù della clausola anti-class action. L’azienda avrebbe messo i giocatori davanti a un bivio: o si accettano le nuove condizioni o si rinuncia a usare il servizio online offerto da Ps3, che al momento dell’acquisto della console era accessibile senza questo tipo di vincoli. Da qui è partito il ragazzo californiano che sta raccogliendo intorno alla sua rimostranza altri consumatori arrabbiati: proprio quello che l’azienda voleva evitare. 
La storia ha inizio lo scorso aprile quando il servizio di community virtuale della Ps3 fu colpito da un attacco ai server con il quale furono trafugati i dati personali di oltre 100 milioni di account, numeri di carte di credito compresi. Una pratica, il cracker, di cui sono state vittima altri giganti del mondo videoludico: da Nintendo a Sega. Gli utenti del network della Sony sono partiti in quarta con una class action, minacciando il boicottaggio di massa e pretendendo in alcuni casi il rimborso della console. Invece di raccogliere la sfida e trovare la falla nei propri sistemi di sicurezza l’azienda di videogiochi ha reagito appunto stilando le nuove condizioni. 
CAUSE COLLETTIVE
Microsoft segue l’esempio 
Sony ha fatto da apripista, l’escamotage è piaciuto anche ad altri: Electronic Arts e Microsoft per prime. Il gigante di Richmond aggiornando i termini di servizio di Xbox 360 ne ha approfittato per riscrivere l’accordo di licenza con l’utente finale: «…ogni procedimento per risolvere qualsiasi controversia, in arbitrato, in tribunale o altrimenti, sarà  condotto esclusivamente su base individuale e né l’utente né Microsoft tenteranno di iniziare qualsiasi controversia sotto forma di class action, azione rappresentativa o azione collettiva». I contenziosi in sede privata oltretutto quasi mai rimbalzano sui media, l’immagine dell’azienda non si sporca. A questo punto, se la class action partita dalla California non dovesse andare in porto, all’utente americano non resta che un procedimento macchinoso e d’altri tempi: accettare le nuovi condizioni di contratto e entro 30 giorni inviare una lettera (non una mail) per descrivere la propria situazione: «Ho accettato i termini di utilizzo per poter usufruire del servizio che ho pagato, ma rifiuto le nuove direttive da voi imposte».


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