LA CRISI NON ASPETTA

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La tempesta finanziaria è globale. Squassa l’Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania paga dazio, come dimostra l’inaudito insuccesso dell’asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell’intera Eurozona. Ma l’Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l’euro. È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità  del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà  pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale.
C’è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli «irriducibili» della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema «non era Berlusconi». È l’ennesimo tentativo di mistificare la verità . L’«effetto Monti», sui mercati, c’è stato eccome. Per una settimana, dal giorno dell’incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi. Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il «teorema Roubini» non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l’Italia un risparmio secco di 100 punti base. La «Papi tax» è esistita, insomma. E noi l’abbiamo pagata.
Ma ora c’è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell’opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell’economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell’emiciclo di Westminster: «L’Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra… L’Italia vive una situazione di seria emergenza… dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l’anello debole dell’Europa… Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l’occasione per riscattare il Paese».
Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un’élite tecnocratica di alta qualità . E poi la «missione fiducia» nel consesso internazionale: l’altro ieri l’Eurogruppo e l’incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy. Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l’Italia nell’unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l’aveva inopinatamente sradicata: l’Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un «battutista» che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua.
Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: «Non ci aspettiamo miracoli», «il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona». Ma poi avverte: «La situazione italiana rimane difficilissima», «il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità  storica e una sfida immensa». Questo lo sa anche il governo di Roma. Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l’azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri «operativo», lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà  a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana. L’Agenda Monti, così come il premier l’ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già  chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un’Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d’anzianità . Dalla lotta all’evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all’imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità : stavolta «chi ha di più, dovrà  dare di più». Sarà  misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici.
La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il «fattore tempo» sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la «luna di miele» che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale. Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso «dividendo»: la discontinuità  e la credibilità . Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani.


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