La rabbia di Chinatown “Italiani sempre più razzisti oggi odiamo questo paese”

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Sono asserragliati dietro le loro vetrine scintillanti, in una Chinatown romana che ha una rabbia sorda, soffocata. Qualcuno sta andando in piazza Vittorio per fare una colletta, vuole assumere guardie del corpo per difendere i commercianti. Non ne possono più di scippi e rapine. E oggi c’è anche il morto. Uno di loro.
Parla Wang Chi: «A me dicono “cinese di merda” almeno una volta al giorno e ne conosco almeno venti di miei connazionali che sono stati derubati negli ultimi tre mesi». È commesso in un negozio di via Napoleone III e adesso è seduto in un ristorante deserto al civico 16 di via Foscolo. Lui lo conosceva Zhou Zheng, il cinese ammazzato con la sua piccola a Tor Pignattara. Ricorda Wang: «Da dieci anni che ci incontravamo ma non ho mai avuto molto a che fare con lui, solo saluti veloci. Non sappiamo ancora perché l’hanno ucciso. Qui, a Roma, per noi sta diventando davvero difficile sopravvivere. Gli italiani stanno diventando molto razzisti».
In cucina ci sono sette ragazzi e una ragazza, tagliano tranci di un grosso pesce, carne scura, quasi nera, sembra un tonno imbalsamato. Sistemano piatti di riso alla cantonese dietro il bancone, ripetono in coro: «Razzisti, sì, italiani razzisti». Tutti sanno di quel che è accaduto sulla Casilina, tutti però ne parlano malvolentieri. Ti guardano con quella faccia imperturbabile, sussurrano due parole e poi si chiudono in un silenzio cupo.
Dietro piazza Vittorio, su per via di San Vito non c’è più un esercizio commerciale di proprietà  o gestito da un romano. Da un po’ di anni i cinesi hanno buttato fuori anche i magrebini. Cinese è anche la ragazza del bar all’angolo, “Il Piccolo Caffè” che vende panini a 1,50 euro: «Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, qui in Italia ci detestano, ci trattano male tutti». Odia l’Italia? «Forse sì, forse stasera odio l’Italia», risponde lei. «Odio l’Italia», lo dice anche una vicina di casa del povero Zhou, una dei 20 o 30mila cinesi che abitano nella capitale italiana. Il numero esatto non lo conosce nessuno. Però tremano tutti nella Roma “gialla”.
Qualche mese fa, i commercianti dell’Esquilino si sono già  tassati una prima volta. Hanno assunto guardaspalle, sei, quattro italiani di un’agenzia di sicurezza e due di loro che gli fanno da traduttori. «Il problema della criminalità  nella nostra comunità  è gravissimo», spiega Hu Lanbo, una signora cinese di cinquantadue anni e che da ventidue, dopo aver sposato un italiano, vive a Roma. Hu dirige un mensile bilingue – “Cina in Italia” – dove in ogni numero scrive del disagio e delle paure degli emigranti di Pechino. «La situazione è peggiorata moltissimo nelle ultime settimane, ma mai avremmo immaginato che potesse accadere qualcosa di così crudele». Secondo lei c’è davvero odio per gli italiani, come in queste ore dice qualche cinese in preda all’emozione? «No, non credo che ci sia odio per l’Italia e per gli italiani, c’è odio per gli assassini». 
Via Carlo Alberto, un’altra delle strade solo cinesi di Roma. Su un neon c’è scritto Xin Shin, dentro sono in due, fratello e sorella che vendono niente a nessuno. Il locale è pieno di borse, di scarponi, piatti, giocattoli, televisori. Lei al computer e lui è sprofondato in una poltrona. Lei alza gli occhi e racconta: «Noi abbiamo paura, per strada ci insultano, ci trattano male, l’altra settimana hanno fatto uno scippo a una mia amica: così, solo perché era cinese». Lui non apre bocca. Poi si alza e bisbiglia: «Io non voglio parlare di queste cose, io non so niente, non so nulla di quello morto sulla Casilina». Poco più su c’è la parrucchiera Xin Chao. È piena di donne. Shampoo e piega 8 euro. Shampoo, piega e taglio 10 euro. Donne sospettosisime. Dice una: «Chissà  perché l’hanno ucciso in quel modo». Dice un’altra: «Non c’è lavoro, noi stranieri siamo troppi e molti italiani si arrangiano, diventano criminali. Magari li prenderanno e diranno che sono sbandati, drogati..». 
Via Rattazzi, via di Sant’Antonio all’Esquilino, via Emanuele Filiberto. I nomi dei negozi sono mischiati come i caratteri. Vita bella. Piccola Cina. Lago Azzurro. Ruye Sciarpe. È una linea continua di insegne, di money transfer, di internet cafè. Una folla che va e viene in ogni angolo tranne che nei grandi magazzini di abbigliamento. Lì dentro non vola una mosca. Mai un cliente. Mai una vendita al dettaglio. E sui marciapiedi davanti alle vetrine i Suv dei padroni , Bmw, Mercedes, Volvo. Suzuki. È l’altra faccia della Chinatown romana. Quella più nascosta che poi è anche quella più visibile. Sono lì in bella mostra automobili da 80 mila e da 100 mila euro e non un’anima viva fra i manichini spogli. Sembrano intoccabili questi signori delle griffe fasulle. Altri misteri di una Chinatown che sta scivolando nel terrore.


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