“Così l’euro finirà  in una lenta agonia”

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NEW YORK Esperti che nel weekend si sono avvicendati al capezzale del “paziente-eurozona”. Un verdetto quasi unanime, dalle colonne della grande stampa Usa riassume gli scenari dominanti, visti dalla Casa Bianca o da Wall Street. Quattro sono i temi principali: la forbice divaricante che si è aperta tra Europa e Stati Uniti accelerando la caduta dell’euro; l’inefficacia degli interventi della Bce che vengono inghiottiti nel pozzo senza fondo delle banche; gli effetti perversi della recessione che è già  iniziata nel Vecchio Continente; i benefici illusori di una svalutazione cancellati dalle fughe di capitali.

L’euro in caduta libera
Il panel di esperti del mercato valutario interpellati dal Washington Post fa dire al quotidiano della capitale che «con la caduta sotto quota 1,28 col dollari si è aperta una nuova fase». Nel 2010 e 2011 l’euro aveva già  attraversato periodi di debolezza, poi seguiti da recuperi legati anche alle magagne del dollaro. Ora la sfiducia sembra più profonda, unilaterale e quasi insanabile dopo lo stillicidio di notizie negative: «dati negativi sull’economia reale in Germania, sulle finanze pubbliche in Grecia e Spagna, perfino la crisi di un paese extra-euro come l’Ungheria» che contribuisce al senso di un marasma generale. Una cifra domina su tutte le altre: mentre in un mese gli Stati Uniti hanno visto una creazione netta di 200.000 posti di lavoro aggiuntivi, e un calo della disoccupazione all’8,5%, nell’eurozona si sono aggiunti 45.000 disoccupati e il numero totale dei senza lavoro ha toccato i 16,3 milioni cioè il record storico da quando vengono compilate statistiche omogenee (1995). Come osserva la Lex del Financial Times, «storicamente non c’è nulla che affondi l’euro più rapidamente, di un confronto negativo con le potenzialità  di crescita degli Stati Uniti». Donde la previsione di una caduta della moneta unica fino a 1,10 o anche sotto la parità , com’era accaduto alla nascita. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, ha annunciato una revisione al ribasso della crescita mondiale, esclusivamente per colpa della frenata europea, proprio mentre gli Usa ripartono.

L’impotenza della Bce
E’ un rapporto del centro studi High Frequency Economics, firmato da Carl Weinberger, a lanciare l’allarme sulla “trappola della liquidità “. E’ un fenomeno tristemente noto perché fu studiato dall’economista inglese John Maynard Keynes durante la Grande Depressione degli anni ‘30: quando i consumatori e gli imprenditori sono paralizzati dalla sfiducia, non serve erogare credito a buon mercato, neanche a “tasso zero”, perché i fondi vengono accantonati in attesa di tempi migliori, non vengono spesi e quindi non entrano in circolazione nell’economia reale. Questo meccanismo perverso sta operando nei rapporti tra l’istituto presieduto da Mario Draghi e le banche. «La Bce – osserva lo studio – in un solo mese ha fornito 600 miliardi di prestiti triennali a costi minimi, e continuerà  a farlo. In tempi normali le banche non desiderano altro che prestare quei fondi, adesso invece non lo fanno, lasciano crescere le loro riserve senza aumentare di altrettanto i crediti. Anzi preferiscono riprestare fondi alla Bce. Perché non si fidano le une delle altre». Il caso di’Unicredit e l’estrema difficoltà  incontrata dal suo aumento di capitale viene citato negli Stati Uniti come una conferma. «Accantonamento del cash, accumulo di scorte di liquidità , tesaurizzazione» sono altri sinonimi per la “trappola”, citata anche da Oliver Wallin di Octopus Investment. E’ drammatico, perché l’azione della Bce è l’unica ad avere un segno espansivo, in una fase in cui tutte le politiche di bilancio (spese e imposte) hanno invece un impatto frenante sulla crescita.

Credit crunch depressivo
Letteralmente è lo “schiacciamento” del credito, e unito con l’austerity imposta dall’ortodossia germanica, produce l’effetto che «la depressione è già  cominciata». Il gruppo Ing attraverso il suo economista Martin van Vliet sostiene che tutti gli ultimi dati dall’eurozona «esibiscono la scritta recessione». Nell’ultimo trimestre 2011 l’area dei 17 paesi ha avuto una decrescita media dell’1,75% e il segno meno continuerà  nel primo trimestre 2012. Tecnicamente due trimestri consecutivi di arretramento del Pil sono la definizione di una vera recessione: la seconda dopo quella del 2008-2009. Senza che in mezzo ci sia stata una ripresa vera. Preoccupa la caduta che ha contagiato perfino gli ordini industriali della Germania, meno 4,8% in novembre. Anche se l’economia tedesca sarà  fra le poche a scampare una recessione, il suo rallentamento significa che non eserciterà  alcun ruolo di “locomotiva” per i Paesi più deboli. Tutte le coordinate del “nuovo patto fiscale” che Mario Monti sta negoziando con Angela Merkel, e che sarà  al centro dei vertici europei di fine mese, vengono rimesse in questione dal peggioramento della congiuntura: i tagli al rapporto deficit/Pil si fanno più pesanti, se scende il Pil che è il “denominatore” di quella frazione. La politica economica diventa prigioniera di una crudele aritmetica.

La svalutazione non sarà  virtuosa
Lo stratega valutario dell’Ubs Shahab Jalinoos è uno dei pochi ottimisti, sostiene che «la caduta dell’euro diventerà  una parte della soluzione, non del problema». Il meccanismo classico è quello della svalutazione competitiva. In fondo, gli anelli deboli come la Grecia e anche l’Italia lamentano il fatto di non poter svalutare, subiscono l’euro come una gabbia troppo rigida. Dunque una caduta della parità  col dollaro e tutte le altre monete mondiali è un vantaggio per le esportazioni. Non concordano affatto altre analisi, da quelle dell’economista Koon Chow di Barclays Capital all’agenzia di rating Fitch. Per loro prevarrà  invece l’effetto “fuga di capitali”: la debolezza dell’euro è frutto di un giudizio negativo degli investitori internazionali, che si stanno ritirando. E’ evidente per esempio il riposizionamento strategico dei grandi fondi d’investimento monetari Usa, che riducono ai minimi termini la loro esposizione sull’euro e tornano ad accumulare buoni del Tesoro americani. In una fase in cui l’eurozona è già  stremata dall’impatto di «austerity nei bilanci pubblici, riduzione del credito da parte delle proprie banche, gelata dei consumi e degli investimenti», l’uscita in massa dei capitali esteri è una pessima notizia. Se da una parte l’euro debole aiuta la competitività  delle esportazioni sui mercati terzi, questo vantaggio rischia di essere annullato dall’ulteriore depauperamento di capitali disponibili per la crescita, provocato appunto dalla fuga degli investitori americani e asiatici. Ricordiamo il clima di aspettative che si era creato ancora pochi mesi fa, quando l’eurozona aspettava un “cavaliere bianco” cinese o brasiliano, l’afflusso di finanziamenti dalle nuove potenze emergenti magari canalizzati attraverso nuovi strumenti del Fmi. Quand’anche quegli aiuti arrivassero – e non sembra proprio che i Bric abbiano fretta di erogarli – il loro impatto può essere svuotato a priori dall’abbandono precipitoso dell’eurozona da parte dei capitali privati. Il movimento rischia di accelerare via via che si consolida l’aspettativa di una ripresa americana, alterando il quadro delle opportunità  d’investimento a netto vantaggio degli Stati Uniti.


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