Articolo 18 e governo Monti: perché l’unica che può salvarci è la Fiom

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Che cosa si dice quando si dice Fiom? Un tempo era la più grande, la più creativa, la più autonoma delle categorie della Cgil. Ed anche la più combattiva. Dalla Fiom e, spesso in modo conflittuale con il resto del sindacato, venivano le più significative idee di rinnovamento, i contenuti contrattuali più audaci e le più originali forme di lotte.

Nel corso di questi decenni anche la Fiom è cambiata, ma non in peggio, come è avvenuto per la maggior parte delle organizzazioni politiche e sindacali che si riferiscono al mondo dei lavoratori. La Fiom ha semplicemente cambiato pelle, è diventata un’altra cosa. E, fatto ancora più singolare, è destinata a cambiare ancora. Le sue caratteristiche attuali infatti non possono rimanere uguali a se stesse. Nello stesso modo di essere del più grande sindacato dei metalmeccanici  ci sono oggi tutti gli elementi che lasciano presagire un ulteriore trasformazione.

Vediamoli con ordine.

Intanto la Fiom è un sindacato forte. Ancora forte malgrado il tentativo portato avanti con straordinari accanimento dalla più grande industria italiana, la Fiat, di annientarlo. Si può persino dire che strategia di Sergio Marchionne, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha dato protagonismo, nuova presenza ad un sindacato che l’opinione pubblica dominata dai mass media avrebbe voluto estremista, residuale e antipolitico. Così non è stato. Tanto più l’amministratore delegato della Fiat ha alzato la posta, ha inseguito lo scontro diretto,  ha cercato l’annientamento tanto più ha dato consistenza e presenza al sua antagonista che ha occupato la scena dello scontro sociale quanto lui. E in quello scontro non ha perduto le sue truppe. I dati dicono che gli  operai continuano ad iscriversi e ad avere fiducia nella Fiom.

La quale, nel frattempo, ha cambiato se stessa. Ed è questo il secondo dato di novità . In che modo? Semplicemente rimanendo legata a quel che era stata nel passato. Il sindacato attaccato ai luoghi di produzione, alle condizioni di lavoro, ai ritmi, alla nocività , alle mansioni, in poche parole all’essenziale della condizione operaia. Non è poca cosa. In questo modo ha costruito una identità  precisa e individuabile, un sindacato diverso dagli semplicemente e paradossalmente perché è rimasto  uguale a se stesso.  Il cambiamento lo ha descritto bene qualche tempo fa Luigi Manconi sul Foglio. “La Fiom – ha scritto Manconi – percorre un’altra strada rispetto al resto del sindacalismo”. Quest’ultimo si è fatto  ”carico dell’interesse nazionale”  e ha finito “per assumere un connotato “moderato”.  Quanto più “confrontava, e di conseguenza mediava, l’interesse del reparto e della fabbrica con un interesse più ampio (di altri strati sociali, dell’intero territorio, dello sviluppo generale)” tanto più l’azione sindacale diventava “ragionevole”, ridimensionava i propri obiettivi, “attenuava la disponibilità  al conflitto”. “Dalla concentrazione su una prospettiva universalistica è derivato – secondo Manconi – non solo quel pansindacalismo che ha prodotto tanti guai, ma anche un progressivo sradicamento del sindacato dai luoghi di produzione industriale e una minore capacità  di tutela del lavoro operaio nella sue condizioni essenziali: ritmi, mansioni, formazione e tecnologia, turni e organizzazione del tempo”.

L’organizzazione di Maurizio Landini  è  il contrario di tutto questo. Ha assunto la connotazione di una organizzazione solo operaia, e colmo del paradosso per il suo principale avversario che ha cercato di batterla con la minaccia di portare la più grande industria metalmeccanica italiana negli Stati Uniti, è diventato un sindacato “americano” che fa innanzitutto gli interessi dei suoi iscritti fuori da ogni schema generalista e universale. Una corporazione, direbbe qualcuno, ma nell’Italia delle corporazioni una corporazione operaia.

Con una differenza rispetto alle altre corporazioni che popolano in questo momento la società  italiana. Essa ha una capacità  di aggregazione anche per movimenti, associazioni politiche radicali e che chiedono cambiamenti profondi. Siamo di fronte ad un corporazione che tende ad unire e a promuovere istanze politiche anche se giudicate estremiste o ai margini della politica ufficiale e del confronto sociale istituzionalizzato. In questo senso la connotazione della nuova Fiom è fortemente politica.

Questo ancora forte sindacato – e arriviamo ad un altro paradosso – non è più presente fisicamente nelle fabbriche. E’ stato cacciato. E’ stato costretto – letteralmente – a fare i bagagli e a lasciare le salette sindacali. I suoi delegati non vengono riconosciuti e quindi non hanno per l’azienda alcun ruolo, sulla basta paga non viene più trattenuta la quota per il sindacato. L’ha fatto la Fiat, ma certo non stupirebbe se questo atteggiamento si allargasse ad altre aziende italiane. Oggi insomma si nega la presenza e la rappresentanza del più grande sindacato operaio. Esso non può svolgere pienamente il proprio ruolo, non può più essere controparte semplicemente perché si è deciso che non deve esistere.

Situazione abnorme dal punto di vista giuridico, assurda dal punto di vista sociale e sindacale e certamente inedita, storicamente unica nell’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Forse dobbiamo andare alla Fiat degli anni 50, ai reparti confino per i comunisti per trovare un paragone e una similitudine.

Ma i paragoni storici oggi sono utili, ma non essenziali. L’essenziale è capire o meglio o cercare di capire quali sono le prospettive per il futuro di una organizzazione con le contraddittorie caratteristiche sopra descritte: corporativa e politica, fuori dalla fabbrica, ma forte dell’adesione operaia, protagonista e cancellata, rappresentante dei garantiti e insieme  unico luogo organizzato riconosciuto dal mondo del precariato, consapevole di una storica sconfitta operaia, ma non rassegnata al suo annullamento.  Che cosa può emergere da tutto questo? Che cosa si può ragionevolmente proporre per il futuro la Fiom? A che cosa può aspirare concretamente? Credo, molto semplicemente ad inventare il sindacato. Ad inventarlo ex novo.  Essa può fare del suo essere fuori dalla fabbrica , della divaricazione dalla linea delle confederazioni sindacali una sfida, dei rapporti con il vasto mondo del precariato un punto di forza. Riconquistare una per una le tessere sindacali, fare le assemblee fuori dalle fabbriche come stanno facendo i dirigenti Fiom, far sentire la presenza dei delegati, anche se non ufficialmente riconosciuti, quando nelle aziende ci sono conflitti o incidenti significa costruire punti di forza e inventare giorno per giorno una nuova organizzazione operaia. “Inventare il sindacato” è uno slogan bello, ma soprattutto un obiettivo realistico e, persino, vincente.


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