Le ricette immaginarie

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Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti. 
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà  con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l’intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative. 
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le “nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro”, richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l’occupazione e ridurre la precarietà . E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti. 
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l’Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d’accordo, che l’articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l’articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c’è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari. 
Si prenda il caso della “flessibilità  buona”, un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività  cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà  che questo è appunto l’intento del governo. Ma è proprio qui che sta l’errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età  di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch’esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà , quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità  il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un’altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.


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