Vota Gingrich e sogna la Casa Bianca a destra incombe il ciclone Sarah Palin

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WASHINGTON – Nelle speranze dei suoi seguaci delusi da tutti, di imitatori e comici che su di lei fecero fortune, di giornalisti asfissiati dalla noia per questa maratona di zombie, la frase è stata subito tradotta in una possibile candidatura della signora alla nomination di un partito bloccato fra quel Mitt Romney che non piace e quel Rick Santorum che non potrà  mai diventare presidente.
Nell’America estranea al circuito delle radio e delle tv ultra-con dal quale lei dispensa il proprio odio per Obama, per i liberal, per la «sinistra», per chiunque non voglia trivellare ogni cortile per spremere l’ultima goccia di petrolio, la reginetta dei ghiacciai e grande cacciatrice di renne era scomparsa dagli schermi radar. Le sue improvvise dimissioni dall’incarico di governatrice dell’Alaska, sotto il peso di fatiche e di costi legali per difendersi da accuse e inchieste, e la rinuncia ufficiale a partecipare alla zuffa dei primi sette nani repubblicani, l’avevano trasformata in presenza ingombrante, ma trascurata.
È stato il passaggio del grande circo delle primarie repubblicane dalla sua Alaska e dal disperato paesino di Wasilla del quale fu sindaco a pungolare “l’elefante rosa” e farla muovere. Come molti altri repubblicani e conservatori sia di estrema destra che di ispirazione più moderata, anche lei è scandalizzata dalle condizioni di un partito che sei mesi or sono credeva di avere già  sconfitto l’odiato Barack Obama e oggi non riesce a produrre un candidato decente e maggioritario. Persino la matrona dei repubblicani, moglie e madre di ben due presidenti, Barbarona Bush, ha brontolato sotto la propria aureola bianca che «questa situazione è scandalosa». S’indigna: «Non ho mai visto nulla di più imbarazzante di quanto sta avvenendo oggi», nella zuffa da comari fra l’indigeribile Mitt Romney, detto Romneytron per la sua artificialità  robotica e il “pasdaran” cattolico Rick Santorum, quello che «vomita» quando riascolta John F Kennedy riaffermare nel 1960 il muro di separazione fra chiesa e stato. 
Sarah, che gioca a fare l’ochetta giuliva quando vuole sedurre il pubblico di bocca buona ma è stata una governatrice eccellente della sua Alaska ed è una donna assai abile e astuta, non è dunque la causa dello scompiglio nel quale annaspa il partito repubblicano. Il risveglio del “Pink Elephant” e di Sara sono l’effetto dell’apparente harakiri della destra divisa da tutti e unita soltanto dal disprezzo umano, personale e politico per il detestato Obama. Dopo l’annuncio della rinuncia alla corsa, le dimissioni, e il lavoro come polemista sulla rete più faziosa d’America, la Fox News Network (e due milioni di copie vendute del proprio libro) la Palin si stava preparando per il 2016. Forse convinta in privato, mentre strepita il contrario in pubblico, che la rielezione del Presidente in carica sia molto probabile, se l’economia americana non dovesse collassare. E se qualche nuova catastrofe militare, come un attacco all’Iran, non si dovesse abbattere su una nazione che di tutto ha desiderio meno che di imbarcarsi in un altro conflitto.
Il suo essere en reserve de la Republique, di avere flirtato, con quella piccola frase raccolta dai suoi amici alla Fox News, con una possibile nomina a tavolino, fatta dal Congresso di agosto in Florida se né Romneytron l’automa indigeribile o Santorum il chierichetto ineleggibile dovessero conquistare i 1.144 delegati necessari è più un segnale che una candidatura. Indica la profondità  della confusione e del malumore che fanno spasimare le due anime dell’opposizione a Obama, quella ringhiosa e irragionevole del Tea Party, che ha in lei una delle madrine ufficiali, e quella moderata e tradizionale dell’establishment, che sta spendendo fortune per puntellare il mormone Romney – dieci volte più fondi elettorali di Santorum – senza riuscire a reggerlo davvero in piedi.
Ad appena 48 anni di età , Sarah Palin ha il tempo della propria parte, come lo ha Santorum con i suoi 53 anni e come non ha invece il reduce di molte guerre politiche vinte e perse Romney. A 65 anni, sa di essere al suo ultimo giro sulla giostra delle ambizioni presidenziali. Di fatto, anche se non ancora legalmente, separata dal marito Todd, il rude “alaskan” da romanzi di Jack London in giubbotto a scacchi usato come nella iconografia dell’America di frontiera nel 2008, quando fu scelta per la vice presidenza da John McCain, sta appollaiata sul trespolo di una televisione amica e flirta con il proprio partito. Furba, dice di non avere votato né per Santorum, il perdente designato, né per Romneytron, il vincitore imposto. 
«Rispondo che ho votato per New Gingrich soltanto perché me lo chiedete voi della Fox» ha detto martedì sera, e la signora può fare la parte della buona mamma d’un tempo chiamata a mettere d’accordo i figlioletti che si strappano i capelli e litigano per il giocattolo. Non ambizione la sua, ma pronto soccorso politico, appeso all’ipotesi molto remota che Romney non ce la faccia a raggiungere il numero di delegati e che Santorum continui a mordergli la caviglie, come ha fatto anche ieri nell’inconcludente Supermartedì. E’ la possibilità , sempre ventilata e mai realizzata in epoca moderna, della “brokered convention”, del congresso gestito dai “broker” del partiti. «Sarò io il candidato repubblicano nominato e scelto dagli elettori» ha risposto da lontano Romney, così confermando di avere paura delle mosse di Sarah Palin. Sa che tutti gli elefanti, di qualunque colore e genere essi siano, quando si muovono tendono a rompere molta cristalleria, dentro il soggiorno angusto di un partito fragile come i repubblicani 2012.


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