Il simbolo San Suu Kyi

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In Birmania si vota oggi per una tornata elettorale che ha assunto un significato quasi simbolico, benché gli elettori siano chiamati a rieleggere solo un piccolo numero di deputati, 45 seggi sui 664 del parlamento birmano. Ma la portata del voto va ben oltre perché per la prima volta da oltre vent’anni i partiti dell’opposizione sono presenti con le proprie sigle e i propri candidati. Soprattutto, è candidata Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito che aveva stravinto le elezioni del 1990: allora però il parlamento non potè mai insediarsi e i militari instaurarono una dittatura feroce.
Nessuno dubita che questa volta Suu Kyi, candidata nel povero quartiere di Kawhmu nella parte meridionale di Rangoon, sarà  eletta. Per questo il voto di oggi ha una portata simbolica: porterà  per la prima volta in parlamento questa donna dal fisico fragile e dalla tempra indistruttibile, che ha passato gran parte degli ultimi vent’anni agli arresti domiciliari, è stata insignita del Nobel per la pace e incarna ormai agli occhi dei birmani e del mondo la lotta per la democrazia in Birmania. 
Non che la battaglia sia conclusa. Venerdì la stessa Aung San Suu Kyi ha denunciato irregolarità  «ben oltre ciò che è accettabile per elezioni democratiche». Non saranno elezioni davvero libere né corrette, ha detto additando come responsabili «persone che occupano cariche ufficiali». Eppure ha ripetuto che la Lega per la democrazia partecipa lo stesso, «per il bene del paese». È la scelta fatta poco più di un anno fa, quando Suu Kyi ha deciso di accettare la proposta di dialogo e «riconciliazione nazionale» che veniva dal vertice militare.
È stata una svolta molto netta da parte della Lega nazionale per la democrazia. La maggiore forza di opposizione aveva rifiutato di avallare la costituzione emanata alla fine del 2009 dai militari, che la presentarono come un avvio di transizione alla democrazia (facendola ratificare con un referendum senza alternative): ma è una costituzione che mette il vertice dell’esercito al di sopra della giurisdizione della Corte costituzionale, gli concede impunità  per le violazioni di diritti umani passate e future, gli attribuisce il potere di dichiarare la legge marziale e sospendere i diritti fondamentali in nome della sicurezza dello stato. Passo successivo della «transizione» era stato convocare elezioni parlamentari, nel 2010, per installare un parlamento e un governo formalmente civili – badando bene però che i militari conservassero il potere reale, ad esempio riservando loro di diritto un quarto dei seggi parlamentari. La Lega per la democrazia rifiutò di partecipare anche a quelle elezioni, che definì una farsa; nessun osservatore straniero ha potuto assistere al voto, e l’unico partito sostenuto dai militari ha vinto a manbassa. È dopo quel voto che il vertice militare ha revocato gli arresti domiciliari a Aung San Suu Kyi, tornata libera nel novembre 2010, e ha nominato presidente un civile, Thein Sein, il quale ha compiuto gesti come scarcerare centinaia di detenuti politici e invitare al dialogo il premio Nobel. 
Ora queste elezioni sono un passo chiave di quella riconciliazione. E per migliorare le sue credenziali il governo birmano ha invitato un piccolo numero di osservatori internazionali ad assistere al voto. 
La posta in gioco è alta sia per il regime che per l’opposizione. Il vertice militare vuole uscire da un isolamento politico ormai costoso, in tutti i sensi: la Birmania è un paese potenzialmente ricchissimo, che esporta gas naturale e altre risorse naturali, e dove operano numerose imprese sia di paesi asiatici che occidentali (oltre al settore degli idrocarburi ci sono numerose «zone franche» che producono per l’export). Ma è anche sotto sanzioni economiche e politiche – che ne limitano il potenziale sviluppo economico – e inoltre ha «consegnato» la leadership all’invadente amicizia della Cina, alleato che in Birmania investe molto sia per tornaconto economico, sia perché rappresenta un suo «sbocco» strategico sull’oceano indiano. Intanto una serie di decisioni faraoniche, come quella di costruire ex novo una città  nella jungla (ora è la nuova capitale, Napidaw) hanno dissanguato le casse dello stato. La corruzione dilaga. Il paese resta assai povero; il 70% della popolazione lavora in agricoltura, ma non c’è investimento nell’economia rurale. Lo sviluppo procede invece per grandi opere con grandi requisizioni di terre: la più notevole oggi in corso, per dimensioni e implicazioni, è il gasdotto-oleodotto in costruzione dalla costa birmana sull’oceano indiano fino al confine dello Yunnan, in Cina: lungo quell’infinito cantiere sono dislocati 44 battaglioni dell’esercito (oltre 13mila soldati) e le organizzazioni per i diritti umani registrano casi massicci di evacuazione forzata degli abitanti, requisizioni, lavoro forzato (gli sfollati costretti a prestare servizio nella costruzione), con corollario di stupri e abusi.
Oggi dunque i militari possono permettersi di vedere Aung San Suu Kyi in parlamento: i seggi in palio sono il 7% del totale, dunque l’arrivo dell’opposizione non cambierà  l’equilibrio dell’Assemblea e ancora meno scalfirà  il reale controllo dell’esercito sul paese, sulle sue grandi opere – o sulla gestione dei conflitti con le minoranze etniche che compongono il paese. Al contrario, hanno bisogno di lei: Aung San Suu Kyi ha un enorme prestigio internazionale, e il regime spera che le nuove credenziali democratiche convinceranno l’occidente a togliere le sanzioni.
La leader dell’opposizione spera invece di aprire uno spiraglio di cambiamento. Due decenni di repressione, in cui oppositori politici e sindacalisti sono stati costretti alla clandestinità , alla galera o all’esilio, hanno lasciato assai debole il suo partito: che ora invece spera di riorganizzarsi. Aung San Suu Kyi ha dichiarato in questi mesi di avere fiducia nella volontà  riformatrice del presidente Thein Sein. Si è detta consapevole che il suo partito non avrà  alcun potere reale in parlamento, ma spera di far sentire in pubblico «le aspirazioni del popolo», e comunque lavorerà  sia dentro che fuori l’Assemblea in vista delle elezioni generali del 2015. 
Insomma: sia i militari, sia Aung San Suu Kyi hanno giocato per il futuro. Quanto le nazioni occidentali o gli stati vicini, sarebbero felici di poter affermare che la transizione alla democrazia è credibile, e quindi cancellare le sanzioni e passare agli investimenti. Ma Aung San Suu Kyi non ha ancora dato il segnale – o almeno questo bisognava intendere, quando venerdì ha detto che «non sono elezioni libere e trasparenti».


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