La fine della Seconda Repubblica

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Citaristi laureato alla Cattolica, Belsito neanche a Malta. Citaristi partigiano, Belsito buttafuori. Citaristi di professione editore, Belsito autista. Citaristi 74 avvisi di garanzia, condanne per sedici anni di carcere, 128 miliardi di lire di tangenti e mai un soldo trovato nelle sue tasche. Belsito… beh, lo sapete.
Se Tangentopoli fu l’atto fondativo della Seconda Repubblica, bisogna dedurre che Partitopoli ne è l’atto conclusivo. In poche settimane sono usciti di scena i due leader, Berlusconi e Bossi, che si offrirono all’Italia per ripulirla da quel sistema dei partiti, colpevole di essersi divorato lo Stato. E per quanto diverse siano le cause dell’addio, con loro finisce il Ventennio.
Ma questa Partitopoli è diversa da Tangentopoli. Vent’anni fa i partiti non rubavano, estorcevano. Questo era il sistema delle tangenti. I soldi del finanziamento pubblico erano insufficienti per tenere in piedi complessi sistemi correntizi, spropositate ambizioni di potere, gigantesche macchine di apparato. Così i partiti li cercavano fuori dallo Stato utilizzando le leve dello Stato. Ricattavano il sistema delle imprese: se vuoi l’appalto, paga la tangente. Non a caso il pool di Milano usò il reato di concussione come grimaldello per entrare in Tangentopoli, accusando chi incassava di «concutere», cioè di estorcere; e concedendo invece a chi pagava l’attenuante dell’esservi stato costretto.
Oggi invece i partiti ricevono senza sforzi molto più di quanto serva loro per finanziare anche la più opulenta vita politica. Stavolta i soldi non vengono dagli imprenditori, ma direttamente dallo Stato, cioè dai contribuenti, grazie a quella legge sul rimborso spese che rimborsa anche quando non ci sono le spese, anche quando non c’è più la legislatura, anche quando non c’è più nemmeno il partito. Poi, certo, ci sono sempre le tangenti, su un piano più locale o personale, raccolte da cacicchi che non hanno accesso alla distribuzione centrale delle risorse e dunque si arrangiano per foraggiare le loro compagnie di ventura. Ma quello che colpisce, nello scandalo Lusi come in quello Belsito, è piuttosto l’enormità  di fondi pubblici a disposizione di partiti che non sanno che farsene, come la Lega, o che non esistono, come la Margherita. Le forze politiche sono oggi così ricche (più di due miliardi e mezzo di euro ricevuti in vent’anni) che devono industriarsi a investire i soldi in eccesso, quasi fossero delle piccole finanziarie, al punto che Belsito comprava titoli in Tanzania e a Cipro perché, come disse elegantemente Bossi quando lo protesse e lo salvò, i Btp italiani erano a rischio default. 
Si può dire che Tangentopoli agì dal lato della domanda, mentre Partitopoli agisce dal lato dell’offerta. Questo, non solo la storia e lo stile personale, spiega l’abisso che separa Lusi e Belsito da Citaristi o da Vincenzo Balzamo, il tesoriere del Psi che morì d’infarto poco dopo aver ricevuto il primo avviso di garanzia. Perché è in questo basso impero dove si nuota nell’oro che l’avidità  si fa più privata e più impudica, e i soldi se ne vanno in Porsche e in caviale, in argent de poche e badanti. La politica guadagna più di quanto fattura, è un’azienda che fa profitti. Il mezzo ha prevalso sul fine. Oggi sì che si ruba: e chiunque rubi di certo non ruba per il partito. 
Ma per quanto più pacchiano e miserando, lo scandalo di Parentopoli non è meno grave di Tangentopoli. Anzi, per la democrazia italiana lo è forse di più. Questi partiti, nessuno dei quali nella Seconda Repubblica ha osato chiamarsi «partito» — con la recente eccezione del Pd — proprio per non confondersi con i partiti di Tangentopoli che pretendevano di aver sostituito, sono finiti come quelli nel disdoro e nella vergogna. Ed è un bel problema, perché al momento sono gli unici che abbiamo. È probabile che dovremo inventarcene dei nuovi, per dar vita a una Terza Repubblica. Ma, per l’intanto, c’è da fare subito una cosa: affamare la bestia. Chiudere il rubinetto dei soldi pubblici e vedere chi sopravvive.


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