I bianchi d’America che si scoprono minoranza

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Washington – Arriva la rivoluzione ed è armata di biberon. L’hanno lanciata, senza neppure saperlo, quei 2 milioni, diciannovemila e diciassette nuovi americani non bianchi nati nell’anno dell’ultimo censimento, il 2011, per la prima volta nella storia più numerosi dei fratellini bianchi, meno di due milioni. Ormai, i piatti della bilancia si sono irreversibilmente spostati e se oggi la popolazione di origine europea questo, in pratica, significa essere “bianchi” è ancora la maggioranza si deve soltanto attendere perché il colore dell’America cambi.
Non è una semplice statistica, una curiosità  demografica. È una seconda rivoluzione che farà  degli Stati Uniti d’America, occupati da coloni ed emigranti europei e trasformati da loro in una nazione duecentotrenta anni or sono, una società  molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. Quei due milioni e più di bebè asiatici, afro, soprattutto latinos, figli di immigrati più o meno documentati provenienti dal sud della Frontera sono figli di culture, di storie, di modi di concepire i rapporti con gli altri profondamente diversi da quella cultura wasp.
La cultura bianca, anglosassone protestante che ha dominato e costruito la struttura dell’edificio America. La maggioranza dentro la nuova maggioranza sono latinos, i figli del sud, e la spiegazione è ovvia. L’età  media della popolazione bianca è di 42 anni, al limite estremo del tempo della fecondità  femminile. La media per gli ispanici, o latinos, come li si vuol definire secondo le maree del linguaggio politicamente corretto, è invece di 27 anni, nel pieno rigoglio dell’età  riproduttiva. E nonostante la debolezza, o l’assenza totale di una rete di supporto pubblica per le famiglie degli immigrati più poveri, funziona l’impalcatura della solidarietà  familiare, il vero, grande welfare state che permette a queste giovani immigrate di avere più figli, 3,8 ciascuna, delle loro sorelle bianche, che si fermano in media a due.
Tutto questo, che oggi scandalizza i “nativisti” che dai loro blog e pubblicazioni profetizzano il collasso della società  schiantata dai lazzaroni pigri e inaffidabili sbarcati nel ventre dell’America, era previsto da tempo e la statistica dei biberon è soltanto la conferma di un fenomeno già  in atto.
Grandi città  come New York, Miami, Las Vegas, Los Angeles, Phoenix vedono la popolazione bianca in minoranza da vari anni. A Tucson, in Arizona, un residente su dieci è di lingua madre inglese. Sulle 3.141 contee distribuite nei 50 Stati dell’Unione, quasi 800 già  vedono i “non euro”, i “non anglo”, i “non caucasici” superati nel numero. E mentre i bianchi invecchiano senza che nuove generazioni di cuccioli si alzino dai reparti di maternità  per rimpiazzarli in pari numero, i non bianchi ringiovaniscono, sotto la spinta di un’immigrazione che è, per natura, un fenomeno di gente giovane.
Il melting pot, l’antico crogiolo che scioglie e fonde assieme popoli diversi per creare la lega americana, continuerà  a bruciare, ma il prodotto che ne uscirà  sarà  molto diverso e non soltanto nel proprio aspetto più superficiale, la carnagione, il taglio degli occhi, il colore dei capelli.
«The browning of America», lo scurirsi del colorito sta imponendo sfide e problemi che né i “nativisti” aggrappati al sogno di una purezza razziale che non è mai esistita davvero e che palesemente sconfina nel razzismo, né i “liberal” entusiasti del multiculturalismo e della diversità  creativa per far rinascere la nazione sanno come risolvere: il problema dell’istruzione e dell’assistenza.
Quell’armata venuta al mondo fra il luglio del 2010 e il luglio del 2011 dovrà  essere istruita, educata, preparata e curata molto meglio di quanto il sistema della pubblica istruzione o dei pronto soccorso degli ospedali pubblici, abbia saputo fare finora, se si vuole che l’America del 2030, quando gli inconsapevoli rivoluzionari con il biberon e il pannolino saranno persone adulte, sia in grado di competere con il mondo. Oggi, soltanto un “latino” su cinque arriva all’università , e soltanto il 18% arriva a una laurea quadriennale, contro il 33% degli americani rosa, se non proprio bianchi, essendo “bianco” un’espressione che porta i connotati inconfondibili dei secoli dello schiavismo. Non può bastare a risolvere questo immenso problema neppure il successo simbolico del primo presidente di “minoranza” eletto quattro anni or sono, anche con il voto dell’America dalle tinte più intense, che scelsero lui, come torneranno a sceglierlo il prossimo novembre, ma sempre votando in percentuali inferiori a quelle, pur bassissime, dei bianchi.
Di fronte al rovesciamento della superiorità  etnica, tanto spesso ed egoisticamente confusa con la “superiorità  morale”, perduta dall’America di origine europea, cristiana, cattolica o ebraica, si alza il problema fondamentale di ogni governo e Stato: i soldi. Chi pagherà  il conto delle scuole pubbliche da migliorare, dell’assistenza sanitaria da estendere a chi ancora non se la può permettere, dell’addestramento a lavori più remunerativi che non siano il taglio dell’erba e l’imbiancatura delle pareti? Dovranno essere quei vecchi white, quei bianchi anziani, che hanno la quota maggiore della ricchezza nazionale e dovranno aprire il portafoglio per finanziare la fine della propria superiorità . Pagare per il proprio crepuscolo.


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