NY. Antologia di Central Park

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La penthouse all’ultimo piano del Carnegie 57, venduta prima ancora di essere finita al modico prezzo di 100 milioni di dollari — la casa più cara di New York — è il miglior punto di osservazione del parco più famoso del mondo. E pazienza se la torre che sta sorgendo proprio sopra l’Essex House, il grattacielo art déco degli anni Trenta, ha cambiato per sempre la skyline di Manhattan vista da qua. New York potrà  pure, anzi dovrà  pure continuamente cambiare, perché questa è la sua benedizione, il movimento perpetuo che cantò già  Walt Whitman, la città  caleidoscopio dei grattacieli di vetro che svettano sui palazzi-scheletri
del passato. Però questi tre chilometri e mezzo di pace no, questo polmone verde continuerà  a restare uguale a se stesso: quasi a testimoniare che un’altra città  è possibile.
«Da bambino c’era una grande roccia, proprio all’ingresso, all’altezza dell’84esima strada, dove mi arrampicavo a scalare: e a me sembrava il monte Everest» racconta Andrew Blauner, che in Central Park: An Anthology ha raccolto per la prima volta il meglio del meglio della letteratura sul tema. «Molti anni dopo, la prima volta che ci sono passato davanti, ho faticato a riconoscere il luogo. Dov’era finita quella montagna? E chi aveva spostato quel masso fin lì? Soltanto allora ho realizzato che quel masso, lì, c’era sempre stato: ero io che ci vedevo una montagna. Nulla era cambiato: solo la mia prospettiva».
No, nulla cambia a Central Park. È più di un secolo e mezzo che questo immenso spicchio verde sfida i grattacieli,
da quando cioè un gruppo di illuminati cittadini volle regalare anche a New York, che allora accelerava la sua formidabile ascesa, un giardino che potesse rivaleggiare con l’Hyde Park dei cugini di Londra, una passeggiata che potesse romanticamente competere con quella del Bois de Boulogne a Parigi. Il parco, ai tempi, era davvero una specie di terra incognita ritagliata nella griglia che nel 1811 aveva disegnato la città  a scacchiera, come la viviamo ancora adesso, le avenues che salgono in verticale e le streets
che l’attraversano in orizzontale: la metropoli dove per darsi un appuntamento non c’è quasi mai un indirizzo ma un incrocio — «
59esima e Seconda» — come in una gigantesca battaglia navale vivente. Di più. Quel Park era così poco Central, per la città  col baricentro a sud, intorno alla Washington Square di Henry James, che quando — nella seconda metà  dell’Ottocento — costruirono lì intorno uno dei primi edifici di lusso, il quartiere era talmente disabitato che il palazzo lo chiamarono Dakota, perché era lontano come il territorio degli indiani: proprio lì, dove adesso al traffico dell’Upper West Side si aggiunge la fila dei fan che ogni giorno si fanno fotografare davanti al luogo in cui fu ucciso John Lennon.
Il parco che non cambia mai, naturalmente, da sempre cambia nel suo paesaggio più seducente: quello umano. L’ex Beatle, per esempio, era visto come una specie di marziano quando intorno al giardino lì sotto casa, che verrà  ribattezzato
Strawberry Fieldsper sempre, spingeva la carrozzina del piccolo Sean: trent’annni dopo, i papà  che pascolano i figli insidiano pericolosamente la folla di maratoneti, ciclisti e fidanzatini in libera uscita. Ma Central Park, nel suo secolo e mezzo di vita, ha visto sfilare così tanti tipi umani che a raccoglierli non basterebbero i più di trecento film che qui sono stati girati. Qual è la vostra cinevista sul parco preferita? Quella struggente di Kramer contro Kramer, col piccolo Billy che dalle braccia di papà  Dustin Hoffman corre verso mamma Meryl Streep? O sempre lì, dietro al Mall, la scena d’apertura di Hairche annuncia festosa l’età  dell’Acquario? Oppure, per prendere un film attualissimo, le fughe al parco di Oskar, l’orfano dell’11 settembre di Molto forte, incredibilmente vicino?
Proprio Jonathan Safran Foer, l’autore di quella storia struggente e meravigliosa, è tra gli scrittori che insieme a Paul Auster, Colson Whitehead, John Burnham Schwartz e tanti altri hanno risposto con entusiasmo all’appello di Blauner a comparire nella prima antologia
letteraria su questo immenso giardino che giusto quest’anno festeggia — fra l’altro — un singolarissimo compleanno. È dal 1962 che il parco urbano più visitato d’America, 35 milioni di persone all’anno, è stato dichiarato National Historic Landmark, patrimonio storico nazionale: come la Statua della Libertà , il Cupolone del Congresso, il Ponte di Brooklyn. Cinquant’anni che ne hanno segnato la storia: perché è stato in questo mezzo secolo che il parco ha vissuto la sua seconda rinascita.
La prima fu intorno agli anni Trenta e porta la firma del sindaco “italiano” che cambiò New York. La Grande Depressione aveva trasformato Central Park nel rifugio dei poveracci e nel fortino delle varie gang. Fiorello La Guardia lo mise in mano a quel Robert Moses che in trent’anni avrebbe completamente ridisegnato l’urbanistica cittadina. E il parco, sotto Fiorello, letteralmente rifiorì. La seconda trasformazione è invece quella degli anni Ottanta e anche qui è la sconfitta della criminalità  â€” ricordate i Guerrieri della notte?
— a segnare l’ennesima rinascita: anche grazie all’istituzione di quell’ente, la Conservancy, che diventerà  un esempio di gestione ambientale copiato nel mondo.
Così il parco ha finito per essere davvero lo specchio della città : riverberandone le mille luci e rilanciandone le mille ombre. Sì, magari il grattacielo di novanta piani non è proprio l’albero che t’aspetteresti nella skyline. Ma questa è New York. E per ogni sceicco pronto a scialare miliardi ci sarà  sempre qualche giovane Holden che s’accontenta di bighellonare. A Central Park c’è posto per tutti: chiedetelo alle anatre, che sono più di sessanta inverni che non si fanno beccare.


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