Il motore cinese rallenta

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Dopo i dati, negativi, sulla produzione industriale pubblicati qualche giorno fa, ieri sono arrivati quelli, altrettanto poco incoraggianti, sulle esportazioni. Statistiche quelle sul rallentamento dell’economia cinese che preoccupano sia in patria, dove il Partito comunista (Pcc) è alle prese con una delicata transizione decennale della sua leadership, sia all’estero, con Europa e Stati Uniti che per la ripresa dell’economia globale confidavano in una crescita «inarrestabile» della seconda economia del pianeta. E infatti, dopo quattro giorni consecutivi in attivo, ieri le principali borse internazionali sono tornate negative proprio in reazione alle notizie che arrivavano da Pechino.
Le cifre rese note ieri dall’Amministrazione generale delle dogane dicono che il mese scorso le esportazioni della «fabbrica del mondo» sono cresciute solo dell’1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si tratta del risultato peggiore da sei mesi a questa parte, ben al di sotto delle aspettative dopo che a giugno l’export era cresciuto dell’11,3%. 
Giù anche le importazioni, che sono aumentate del 4,7%, mentre a giugno avevano fatto registrare un +6,3%. A pesare in questo sono le materie prime, di cui il Paese ha meno bisogno nel momento in cui le sue fabbriche e il suo boom edilizio tirano il freno.
Nel periodo compreso tra gennaio e luglio 2012 il commercio estero della Repubblica popolare (2.170 miliardi di dollari) è cresciuto del 7,1% rispetto allo stesso periodo del 2011, nettamente al di sotto del 10% previsto su base annua.
La recessione in Europa si fa sentire eccome. L’Unione europea è il primo partner commerciale della Cina e l’interscambio tra i due mercati – pari a 315,8 miliardi di dollari tra gennaio e luglio – è diminuito dello 0,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. 
I dati arrivati ieri fanno seguito a quelli sul prodotto interno lordo (pil), che nel secondo trimestre del 2012 è aumentato «solo» del 7,6%, il dato peggiore dal picco della crisi finanziaria del 2008.
A questo punto gli economisti si aspettano che, come tre anni fa, il governo vari un piano di stimolo per far ripartire la crescita. Un programma che dovrebbe essere robusto (l’inflazione negli ultimi mesi è calata costantemente), anche se non paragonabile al «mammut» del 2009, quando nel sistema economico fu immessa liquidità  pari a 585 miliardi di dollari. 
Come ha spiegato al giornale economico Caixin Jiang Chaoliang – il presidente della Agricultural bank of China, una delle quattro grandi banche di Stato -, non potendo contare più di tanto sull’export, per le difficoltà  dell’Europa e degli Usa, né sull’aumento dei consumi interni, che richiede molto tempo, per stimolare la crescita il governo agirà  sulla leva degli investimenti. 
Già  due volte dal giugno scorso la Banca centrale ha ridotto il tasso d’interesse e in molti scommettono che sia pronta ad abbassarlo ulteriormente. Così come che arriverà  un rilancio di quei mega investimenti statali che secondo alcuni hanno moltiplicato infrastrutture a volte inutili e addirittura città  sorte dal nulla dove nessuno vuole andare ad abitare. 
Il premier Wen Jiabao ha definito quello cinese un sistema economico «sbilanciato, scoordinato e insostenibile». Ma, alle prese con la crisi globale, la Cina per ora sembra incapace di invertire la rotta.


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