L’ultimatum di Obama “Iran, la pazienza è al limite e Assad se ne deve andare”

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NEW YORK — Rivendica la sua scelta di appoggiare le primavere arabe «perché alla fine solo la democrazia può portare stabilità ». Rinnova l’avvertimento all’Iran: «Gli Stati Uniti faranno tutto quello che devono per impedire che ottenga l’arma nucleare», e il tempo delle soluzioni diplomatiche «è limitato». Ma è soprattutto un’appassionata difesa della libertà  di espressione, della tolleranza, quella che Barack Obama interpreta davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite. A pochi giorni dalle violente proteste antiamericane che hanno infiammato tante nazioni islamiche, il presidente sfida i leader arabi a proteggere i diritti umani e le libertà  religiose per tutti, a indignarsi quando ogni religione viene insultata: «Anche quando è Gesù Cristo che viene offeso, le chiese sono bruciate, oppure è l’Olocausto che viene negato».
È un esercizio delicato, ad alto rischio, quello che Obama affronta al suo quarto intervento al Palazzo di Vetro. È il leader degli Stati Uniti che parla al mondo intero. È anche in campagna elettorale, a 40 giorni dal voto, e improvvisamente la politica estera lo vede sulla difensiva. Deve rintuzzare gli attacchi del repubblicano Mitt Romney secondo il quale l’alleato israeliano è stato abbandonato, e dopo le ultime violenze in Medio Oriente «gli americani si sentono in balìa degli eventi». Deve contrastare uno scetticismo diffuso, sul bilancio (provvisorio) delle primavere arabe, che hanno visto l’ascesa al potere dei Fratelli musulmani in Egitto. Deve affrontare un’altra crisi umanitaria e politica, in Siria, senza l’opzione dell’intervento militare.
Obama sceglie di aprire e chiudere il suo discorso con un omaggio personale. «Oggi io voglio parlarvi di un americano di nome Chris Stevens, che amava e rispettava i popoli del Nordafrica, che aiutò il popolo libico, che è stato ucciso nella città  che lui aveva aiutato a salvare. Chris Stevens incarnava il meglio dell’America ». L’omaggio all’ambasciatore ucciso a Bengasi tocca le corde dell’orgoglio nazionale americano; al tempo stesso fa di Stevens il simbolo postumo di una politica giusta, che Obama non vuole rinnegare, cioè la scelta di stare dalla parte dei popoli che si sono ribellati alle dittature. Quella scelta di campo fatta «poco meno di due anni fa quando un ambulante si diede il fuoco in Tunisia», Obama la ribadisce a proposito del regime di Assad in Siria «che se ne deve andare». Non c’è soluzione migliore della democrazia, ma la democrazia è una scelta che va fatta fino in fondo: tutelando anche le libertà  degli altri. Obama impartisce una lezione ai leader arabi, quelli che non si sono dissociati davvero (o troppo tardi e timidamente) dalle violenze degli ultimi giorni. Ribadisce la sua condanna del film contro Maometto «che offende tanti americani, me compreso». Ma spiega perché in America nessun blasfemo è censurabile né perseguibile, neppure se offende la religione cristiana. «Gli sforzi per limitare la libertà  di parola possono diventare uno strumento per opprimere le minoranze o zittire il dissenso, l’arma migliore contro l’odio non è la repressione, è più libertà  di
parola». Fa un esempio che non suona certo accondiscendente verso i vari autocrati o aspiranti tali che lo ascoltano a Palazzo di Vetro: «Come presidente degli Stati Uniti e capo delle forze armate accetto che mi si insulti ogni giorno, e difenderò il diritto di tutti a insultarmi». Ricorda che «gli americani sono morti nel mondo intero per difendere questa libertà , anche di chi non la pensava come noi». La sua condanna è dura contro chi ha voluto o tollerato le ultime violenze: «Non ci sono scuse per chi uccide gli innocenti». Ribadisce che l’America farà  di tutto perché i colpevoli dell’assassinio di quattro funzionari al consolato di Bengasi sia punito. Conclude che «il nostro futuro deve essere determinato da persone come Chris Stevens, non dai suoi assassini». Per la destra che lo attende al varco, il discorso non passa l’esame dell’allineamento con Israele. Per quanto dure siano le parole contro i progetti nucleari dell’Iran, manca un ultimatum. Manca quella “linea rossa da non varcare”, che avrebbe voluto il premier israeliano Benjamin Netanyahu, appoggiato dai repubblicani. Ma Obama non incontra Netanyahu, non ha voluto nessun vertice bilaterale con i leader presenti a New York, il discorso a Palazzo di Vetro è una parentesi solenne per marcare le sue posizioni, prima di rituffarsi nella campagna elettorale, Stato per Stato.


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