Budget Usa, tocca ai senatori Si punta su un miniaccordo

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NEW YORK — Si tratta su un «miniaccordo». Da ieri mattina Harry Reid, capogruppo della maggioranza democratica, e Mitch McConnell, pari grado della minoranza repubblicana, sono chiusi negli uffici del Senato per evitare che il primo gennaio 2013 l’economia americana precipiti nel «fiscal cliff».
Il perimetro della discussione è quello indicato l’altro giorno dal presidente Barack Obama. Primo punto: le agevolazioni tributarie introdotte dall’ex presidente George Bush vanno confermate per i contribuenti che guadagnano fino a 250 mila dollari all’anno. Praticamente per tutti, visto che nel 2011 il 95% delle dichiarazioni dei redditi non ha superato questa soglia. Secondo: conferma dei sussidi per quei 2,1 milioni di disoccupati che potrebbero perderli alla scadenza del 31 dicembre 2012. Terzo: interventi sulla spesa pubblica, salvaguardando l’assistenza medica per gli anziani e per i più poveri. E’ un piano decisamente ridimensionato rispetto agli obiettivi fissati dal presidente solo pochi mesi fa.
Per tutta la giornata sono filtrate poche indiscrezioni da Washington. Una sola rilevante: McConnell avrebbe proposto di alzare la soglia dell’«invarianza fiscale» dai 250 mila dollari indicati da Obama a 400 mila dollari. Intanto il tempo corre e non restano che un paio di giorni. I più ottimisti, da una parte e dall’altra, scrutano il calendario e prevedono la possibilità  di un voto al Senato già  oggi e poi, subito dopo, nella Camera dei rappresentanti, dove i repubblicani sono in maggioranza.
In realtà  la trattativa rischia proprio di impigliarsi nei contrasti interni nel partito conservatore. Prima di Natale lo speaker della Camera, John Boehner, aveva dovuto rinunciare a presentare il suo «piano B» ai deputati, nonostante il limite oltre il quale far scattare l’aumento delle tasse fosse collocato a un reddito di un milione di dollari. Boehner prese atto che i suoi compagni sarebbero rimasti fedeli al principio base dei repubblicani: sempre e comunque contro l’aumento delle tasse.
Ora il problema è capire se le pressioni di Obama indurranno quegli stessi parlamentari a votare «sì» a un accordo che abbassa l’asticella del «più tasse» a 250 mila dollari.
Forse è esagerato parlare, come pure ha fatto qualche editorialista americano, di «guerra civile» tra i repubblicani. Ma gli avvenimenti di questi giorni dimostrano che, quanto meno, mancano punti di riferimento. La sconfitta del candidato Mitt Romney ha lasciato il vuoto politico, bloccando, almeno per ora, anche l’ascesa del suo vice, Paul Ryan. Certo tra i banchi parlamentari è ancora forte la capacità  di interdizione degli iper conservatori del movimento «Tea party»: sono stati soprattutto loro ad affossare il «piano B» di Boehner. Ma finora nessuno è stato in grado, o meglio, nessuno ha voluto suggerire una soluzione alternativa.
Ora l’iniziativa è nelle mani di McConnell, senatore settantenne, classificato tra i conservatori-tradizionalisti: nel 2003 era stato tra i più ardenti sostenitori dell’intervento militare in Iraq. Poi, esaurita la parabola di Bush, era scivolato nelle seconde linee del «Grand old party». Intanto l’opinione pubblica invia segnali preoccupanti per questa parte politica. Secondo l’ultimo sondaggio della Cnn/Orc il 48% dei cittadini americani attribuirà  la responsabilità  di un eventuale fallimento alla forza di opposizione, contro il 37% che se la prenderà  con Obama.


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