Morsi invita al dialogo ma schiera i tank

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È sempre più arduo per Mohammed Morsi avanzare sul filo o solo starvi in piedi senza cadere: il raìs equilibrista che ripete di voler conciliare le varie anime dell’Egitto è già  inciampato più volte. E anche l’atteso discorso di ieri notte è stato uno scivolone, perché di fatto non ha concesso niente all’opposizione, in rivolta da due settimane. «Rispetto la libertà  d’espressione ma non chi grida al golpe, il mio governo è legittimo», ha detto in tv. Poi solo conferme di passi già  attuati. E l’invito «alle forze politiche, ai rivoluzionari e alle figure giuridiche a incontrarsi per il dialogo», domani. Mossa apprezzata dal presidente Usa Obama che si è però detto «preoccupato per le violenze» in una telefonata a Morsi.
La risposta arrivata nella notte dai leader dell’opposizione, Mohammed El Baradei per primo, è stata negativa: «Nessun incontro». Ieri mattina, dopo ore di scontri costate sette morti e centinaia di feriti, al Cairo erano tornati i carri armati. Solo cinque ovvero pochi e simbolici (ma i simboli contano), schierati a difesa del palazzo presidenziale a Heliopolis assediato da due giorni. L’ultimatum per sgombrare l’area entro le 15 è stato in parte rispettato, ma nella notte 200 persone hanno marciato alla montagna di Moqattam e assalito la sede dei Fratelli Musulmani, dandole fuoco prima che la polizia attaccasse a sua volta. Intanto Tahrir resta presidiata, l’intero Paese è in fermento: perfino la casa della famiglia di Morsi nel Delta è stata assaltata e centinaia di persone disperse con i lacrimogeni.
Se il raìs e la Fratellanza islamica da cui proviene speravano che le proteste alla fine rientrassero si sono sbagliati. «La rivoluzione va avanti», grida la piazza contro il decreto con cui Morsi il 22 novembre ha assunto pieni poteri e contro la bozza di Costituzione, approvata da una costituente di soli islamici e carente sui diritti civili. Ieri un altro consigliere di Morsi, il cristiano Rafiq Habib, vicepresidente del partito Libertà  e Giustizia della Fratellanza, ha annunciato le dimissioni. Dall’inizio della nuova crisi sono sette su 17 ad essersene andati.
Contro il proclama «dittatoriale» (seppur pro tempore come Morsi ha ribadito ieri) è scesa in campo anche Al Azhar. La massima autorità  dell’Islam sunnita, il cui Grande Imam è peraltro di nomina presidenziale, ha chiesto al raìs di «sospendere quel decreto e di cessare di usarlo». Secondo il quotidiano Watan lo stesso Morsi, riunito prima del discorso con i ministri e i leader militari, avrebbe considerato un «congelamento» del famoso decreto. Per altri sarebbe stato sul tavolo il rinvio del referendum del 15 dicembre sulla Costituzione.
Invece niente, o quasi. Ieri Morsi ha infatti solo concesso la rinuncia al punto 6 del decreto, che lo autorizza a «prendere ogni misura possibile per proteggere il Paese e la rivoluzione», mantenendo però l’«intoccabilità » da parte della magistratura. Il referendum del 15 è stato confermato, e solo in caso di bocciatura della Carta (improbabile) verrà  formata una nuova costituente. E poi quell’«invito al dialogo», che l’opposizione ieri notte «stava discutendo» ma era già  propensa a respingere.
Nel pomeriggio Amr Moussa, uno dei leader del neonato Fronte di salvezza nazionale in cui è finalmente riunita l’opposizione, aveva ammesso «contatti» con i Fratelli e con i salafiti «per porre fine allo spargimento di sangue». Su Morsi, aveva detto, si starà  a vedere «la sua legittimità  come raìs dipende dal suo grado di saggezza». Ma dopo quel discorso deludente, il giudizio pare scontato. Il movimento più importante dei giovani di Tahrir, il 6 Aprile, ha subito detto che sabato all’incontro non ci sarà . El Baradei ha aggiunto il suo «no». Gli altri, salvo colpi di scena, lo seguiranno.
Cecilia Zecchinelli


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