Giù le tasse e nuovi posti di lavoro. Tutte le (mancate) promesse elettorali

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ROMA — Ci fu un tempo in cui la pressione fiscale in Italia era così bassa che in Europa ci batteva solo la Grecia. Era il 1981. Secondo le statistiche pubblicate dalla Comunità  economica europea, come si chiamava allora, al primo posto c’era il Lussemburgo, con un prelievo fiscale e contributivo complessivo pari al 51% del Prodotto interno lordo, e al decimo e ultimo posto la Grecia col 27,4%. L’Italia al nono col 36,8%, rispetto a una media Cee del 40,8%. Tanto che i governi dell’epoca erano impegnati a riportare il nostro Paese in linea. E così nel 1983 l’allora ministro delle Finanze, il socialista Francesco Forte, annunciava che la pressione fiscale sarebbe aumentata di cinque punti rispetto al 1982, arrivando al 44,2% del Pil. E nel 1985 il successore, Bruno Visentini, certificava il raggiungimento dell’obiettivo, avvertendo però già  allora che, sull’altro versante del bilancio, le uscite, «non è accettabile il fatalismo di una spesa pubblica destinata ad aumentare». Come dire: attenzione perché qui, con la scusa che aumentano le entrate non si mette mai un freno alla spesa. Insomma, quella spirale perversa che ancora ci avvolge. Il dibattito fu però troncato sul nascere dalla revisione del Pil compiuta dall’Istat nell’87 che fece diventare improvvisamente l’Italia più ricca, tenendo conto anche dell’economia sommersa. Il risultato fu che, aumentando il denominatore, la pressione fiscale risultò improvvisamente più bassa di circa sei punti: nel 1986 non più del 43%, ma del 36,9%. E subito l’Ocse sottolineò che l’Italia stava di nuovo 4 punti sotto la media Cee e che ci aveva superato perfino la Grecia, senza chiedersi però se gli altri Paesi nel frattempo avevano o no rivalutato il proprio Pil. Ai politici non sembrò vero e i quattro punti furono recuperati rapidamente. Nel 1990 la pressione fiscale era già  al 39,9% del Pil. Tutto bene allora? Per niente. Il debito pubblico sfiorava per la prima volta il 100% del Pil. Com’era possibile con un così elevato livello di tassazione? Perché la spesa pubblica era ancora più grande, pari al 49,3% della ricchezza prodotta in un anno.
Nessuna sorpresa, allora, che a terremotare la Prima Repubblica sia stata anche la questione fiscale. Siamo nei primi anni Novanta. I commercianti scendono in piazza contro la Minimum tax. Al Nord la Lega muove i primi passi inneggiando alla rivolta fiscale. Anche l’Ocse attesta che l’Italia ormai è seconda per pressione fiscale soltanto alla Francia, tra i sette Paesi più industrializzati del mondo. Il problema, finalmente, non è più quello di recuperare posizioni, ma di tagliare le tasse. Una richiesta diffusa che viene raccolta sul nascere il 2 gennaio 1994 dal presidente della Fininvest, Silvio Berlusconi che, 24 giorni prima della «discesa in campo», propone di fissare nella Costituzione «un tetto al prelievo fiscale in rapporto al reddito nazionale». Proposta subito salutata dalla Lega che ne rivendica la primogenitura, avendo già  presentato in Parlamento una proposta di legge costituzionale per introdurre un tetto del 25% del Pil alla pressione fiscale. Poi, nel programma elettorale di Forza Italia presentato il 28 febbraio, Berlusconi propone anche di andare verso una sola aliquota Irpef non superiore al 30%, la flat tax cara all’economista Antonio Martino, tessera numero due del neonato partito. Nel programma della «gioiosa macchina da guerra» della sinistra guidata allora da Achille Occhetto, invece, più prudentemente, e genericamente, si parla di una riduzione della pressione fiscale «in prospettiva».
Vince Berlusconi. Ma il 22 giugno del 1994 il suo ministro del Bilancio, il leghista Giancarlo Pagliarini, già  mette le mani avanti: «Mi sembra molto difficile ridurre la pressione fiscale». Due settimane dopo, il collega del Tesoro, Lamberto Dini, aggiunge: «Se riusciremo a mantenerla invariata sarà  già  un successo». Il primo governo Berlusconi dura appena sette mesi e nel ’95 la pressione fiscale, dice l’Istat, è del 41,2%. Altro che flat tax. Nel ’96, col prelievo complessivo salito al 41,6% del reddito nazionale, dopo la parentesi del governo Dini, ci sono di nuovo le elezioni. Questa volta vince l’Ulivo guidato da Romano Prodi, che nel programma ha scritto che la pressione fiscale resterà  inalterata nei primi due anni di governo per poi scendere negli ultimi tre. Ma anche il professore dura poco: due anni e mezzo. Nel ’97 la pressione schizza di due punti, al 43,7%, per colpa dell’eurotassa, varata in tutta fretta per consentire all’Italia di entrare nell’euro. Nel ’98, senza più questa una tantum, la pressione scende al 42,3% per restare su questo livello anche nel ’99 e calare poi fino al 41,3% negli ultimi due anni del centrosinistra, con Massimo D’Alema prima e Giuliano Amato poi. Più o meno lo stesso livello di cinque anni prima. Anche in questo caso, quindi, promesse non mantenute.
Nel 2001 nuove elezioni e ritorno di Berlusconi al governo. Il programma della Casa delle libertà , la coalizione di centrodestra, promette: niente tasse fino a 22 milioni di lire di reddito, aliquota del 23% fino a 200 milioni, del 33% sopra. Berlusconi prende questi impegni e quello sulla «creazione di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro» in tv a Porta a Porta firmando il «Contratto con gli italiani». Il Dpef, il programma economico presentato dal ministro Giulio Tremonti, prevede una graduale riduzione della pressione fiscale fino al 38,2. Le cose andranno diversamente. Colpa dell’11 settembre dirà  il centrodestra. In ogni caso, secondo le serie storiche Istat, la pressione dal 2002 al 2006 aumenta dal 40,8% al 42%. E l’aliquota massima dell’Irpef nel 2006 è il 43%, per i redditi sopra 100 mila euro, altro che 33%. Ancora promesse non mantenute. Il Fisco è insaziabile, ma anche iniquo. La Banca d’Italia osserva che «in Italia l’incidenza delle entrate sul Prodotto è in linea con quella degli altri Paesi dell’area euro tuttavia le nostre aliquote legali sono tra le più elevate» perché a causa di un’evasione fiscale maggiore, i contribuenti onesti pagano di più «rispetto al resto d’Europa». E gli evasori restano impuniti.
Alle elezioni del 2006 Berlusconi si ripresenta. Eppure aveva detto: «Se non riuscirò a rispettare il contratto con gli italiani non mi ricandiderò». Questa volta un’altra promessa ad effetto: via l’Ici sulla prima casa. Prodi invece garantisce la riduzione di 5 punti del cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro lordo e retribuzione netta. Il professore vince e taglia i 5 punti. Ma non se ne accorge nessuno. Nel Dpef 2007-2009 il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, non prende impegni precisi sulla riduzione della pressione fiscale, dice solo che avverrà  compatibilmente con l’aggiustamento della finanza pubblica. Nei due anni del governo Prodi il prelievo complessivo resterà  intorno al 43% del Pil, ormai tre punti sopra la media dell’Unione Europea dove da tempo si percorre la strada della riduzione delle tasse, ammonisce l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Inoltre, da noi il Pil non cresce.
E arriviamo al 2008, l’ultima vittoria di Berlusconi. «Vogliamo ridurre la pressione fiscale sotto il 40%. Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani. Via l’Ici sulla prima casa». Come è finita lo sappiamo. Secondo Renato Brunetta, economista principe del Pdl, il governo Berlusconi è stato costretto a fare manovre per un valore cumulato nel periodo 2008-2014 di ben 265,3 miliardi di euro (avete letto bene). Inevitabile che la pressione fiscale viaggi quest’anno, a causa anche delle manovre Monti, verso il 45,3% del Pil. Siamo davvero al limite. Con la Lega, che già  dal 2011, cavalca la rivolta contro Equitalia, l’agenzia di riscossione, diventata il capro espiatorio di una peso fiscale insopportabile. Sempre su chi paga, intendiamoci. Adesso ci risiamo: nuova campagna elettorale e nuove promesse. Monti «sale» in politica e dice che ridurrà  la pressione fiscale di almeno un punto e rivedrà  perfino l’Imu. Brunetta rilancia: taglieremo la pressione di un punto all’anno. Berlusconi va oltre: niente tasse per 4-5 anni per le imprese che assumono lavoratori a tempo indeterminato. «Come prenderli in nero», chiarisce. E via di questo passo.


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