Pasolini, il vero pittore è un poeta

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Nel Fondo Pasolini dell’Archivio Bonsanti di Firenze è conservato un saggio inedito dal titolo Se la pittura odierna possa stimarsi un genere poetico. La sua datazione è dubbia, ma riferimenti al filosofo francese Jacques Maritain, pressoché identici a quelli presenti nel lavoro di laurea su Pascoli, portano alla primavera del ’45, quando fu conclusa la stesura della tesi (Le frasi che seguono tra virgolette, che provengono dall’inedito, si propongono di superare la frammentarietà  del testo, e sono autorizzate da Graziella Chiarcossi).
Il saggio muove da alcune pagine di Maritain sulla poesia come esperienza spirituale, dove — scrive Pasolini — «ho trovato espresso quanto da tempo mi lampeggiava nella mente». La poesia è riconosciuta «come il frutto di un contatto dello spirito con la realtà  in sé ineffabile e con la sua sorgente la quale, in verità , è Dio medesimo, nei movimenti d’amore che lo portano a creare immagini della sua bellezza». «Boccaccio non aveva già  detto che “poesia è teologia”? In ogni caso è ontologia, perché, se autentica, essa scaturisce dalle misteriose sorgenti dell’essere».
Pasolini applica il discorso al campo pittorico, distinguendo tra una pittura poetica e una pittura pura. Si riscontra lo stesso criterio in alcuni articoli pubblicati sul «Setaccio» tra marzo e maggio ’43. In Giustificazione per De Angelis il pittore ischitano è associato più a «un gusto poetico, che ad un piacere schiettamente e puramente pittorico»; il Commento allo scritto di Bresson parla di un’«aria poetica espressa con mezzi unicamente e coscientemente pittorici che tante volte i nostri Carrà , Morandi, De Pisis ecc… hanno saputo realizzare». L’inedito tenta una teorizzazione: «Anche la pittura è poesia, se per questa s’intende, col Maritain, un’esperienza spirituale. E così, io credo, l’intendono i grandi pittori da Giotto all’Ottocento. L’Impressionismo dei francesi ne è la prima cosciente reazione. Psicologia e poesia (…) si arrendono dinnanzi alla purezza della pittura (…) ma la loro eternità  risiede in un colpo di pennello, in un’ombra, in una luce, in un colore». «Era una posizione che non si poteva mantenere a lungo senza vacillare»; già  di fronte alla pittura di Van Gogh «il sentimento è certamente più poetico che pittorico. Noi cogliamo subito quello che egli ha voluto darci, cioè della lirica. Una lirica, o un brano di diario, che nella Camera dell’artista vogliono esprimere una desolata solitudine». Quella «cameretta è un faro situato, e volutamente, alle sorgenti dell’essere, nel luogo ancora inesplorato e terribile che è dentro di noi». Sono immagini tipiche del giovane Pasolini, di matrice esistenzialistica. Nel saggio postumo I nomi o il grido della rana greca (’45-46), scriveva di «chi avverte o sente in sé quell’infinito, dentro l’esteso deserto che è la sua vita», laddove nell’inedito si legge dell’«esteso deserto che è la nostra vita interiore ove ci avventuriamo da soli».
Il testo prosegue con analisi di opere del filone «poetico»: Picasso (Chitarra e violino), Carrà  (L’amante dell’ingegnere), De Pisis. Picasso «ci fa assistere a una poetica decomposizione del senso delle cose, e ci porta a un inspiegabile disagio, ad una febbrile indisposizione, cioè ad uno stato poetico (…) un improvviso grido di ironica angoscia». «Carrà  nell’Amante dell’ingegnere, vuol giungere senza indugi a quella fermezza ed eternità  che sono l’inaspettato esito della grande pittura (…). Era uno sbaglio, un’illusione. Tuttavia poiché solo gli sbagli e le illusioni nutrono il poeta, queste cadono; l’opera vuole restare; e non è detto che la Moglie dell’ingegnere (sic!) non sia una pittura davvero poetica (quella sua strana solitudine, quel suo pauroso silenzio). Anche tecnicamente è un quadro senza storia, cioè senza una storia particolare (…) un colore inaspettato, un segno o una sporcatura fantastici… un’improvvisa linea che si interna nello spazio, segnano le date visibili, drammatiche di un’ideale cronologia (…). In questa Amante dell’ingegnere che io prendo come esemplare di pittura antimpressionista, o poetica, dove l’eterno e l’ineffabile sono per se stessi ricercati, quella storia manca; la perfezione vi affiora indifferente e accesa (…). La mortale solitudine di quell’orizzonte da diluvio, un chiarore temporalesco, della testa deforme contro il buio impossibile dello sfondo, l’abbandono maligno e significativo di quell’oggetto oblungo, che sferzando tutte le linee orizzontali e verticali della composizione sembra puntare indifferente senza una dimensione mai scoperta ed atroce… vogliono essere un linguaggio desolatamente preciso, dichiaratamente poetico».
In tredici fogli manoscritti emergono tracce di diverse esperienze. Idee sulla poesia e sulla pittura sono appuntate in modo piuttosto slegato, e non suscitano forte interesse se considerate isolatamente, ma assumono valore in rapporto alla biografia. Una curiosa corrispondenza lega queste pagine inedite, sospese tra poesia, arte e filosofia, alle tre tesi che Pasolini progettò tra l’agosto ’42 e il marzo ’47. Della prima, concordata con Roberto Longhi sulla pittura italiana contemporanea, scrisse brevi capitoli dedicati a Morandi, Carrà  e De Pisis, poi persi in una fuga da disertore verso Casarsa dopo l’8 Settembre. Dunque, com’è noto, riparò su Pascoli. Di una terza tesi, in filosofia, dà  notizia l’epistolario: «I rapporti tra esistenzialismo e poetiche contemporanee». Ma non fu scritta, o almeno non se n’è mai avuta traccia.
Tale varietà  di interessi conferma fin dall’inizio non l’eclettismo, ma il «relazionismo» di Pasolini, sempre disciplinato dall’urgenza di poesia. Enzo Paci, filosofo a lui caro lungo gli anni Quaranta, scriveva: «Di fronte al mistero della poesia come comunicazione nel tempo, di fronte all’accadere ed al realizzarsi di questo fatto impossibile (…) noi ci domandiamo: che cosa ho sentito? che cosa sento? che cosa è avvenuto e che cosa deve avvenire in me?».


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