I sindacati liberi sbarcano in Cina Svolta nelle fabbriche della Apple

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PECHINO — Nella Cina dove anche un innocente voto via sms per scegliere il vincitore di uno show tv è stato bloccato dal regime, oltre un milione di operai potranno scegliere liberamente i loro delegati sindacali. Una svolta che può essere storica se si riflette sul fatto che viene proprio nella prima fase dell’insediamento della nuova leadership di Pechino, guidata da novembre dal segretario del partito Xi Jinping.
Accadrà  alla Foxconn, il grande gruppo dell’elettronica taiwanese che dalle sue fabbriche in Cina rifornisce di gadget quasi tutti i marchi internazionali, dalla Sony a Hewlett-Packard, Nintendo, Dell e Apple: senza le sue catene di montaggio i milioni di iPhone e iPad non arriverebbero mai negli Apple store sparsi per il mondo.
Ma la produzione ha un costo umano enorme: le maestranze sono costrette a turni di lavoro lunghissimi, vivono praticamente accasermate, sono talmente stressate che nel 2009 e 2010 negli impianti diversi ragazzi si sono tolti la vita. Quei giovani non avevano consigli di fabbrica a cui rivolgersi, perché il sindacato in Cina è strettamente controllato e anche devoto alla dirigenza delle aziende e alle autorità . La Foxconn ora si prepara a concedere il diritto di voto libero a un milione e duecentomila dipendenti che potranno scegliere 18 mila consigli di fabbrica in scadenza tra quest’anno e il prossimo. Al Financial Times, che ha dato per primo la notizia, i vertici della società  di Taipei hanno assicurato: «Anche le posizioni del presidente e dei venti membri del comitato sindacale saranno decise con elezioni una volta ogni cinque anni: il voto sarà  anonimo».
Tutto è cominciato dopo la serie di suicidi. La Apple, preoccupata per la sua immagine, decise di inviare gli esperti americani della «Fair Labor Association» a visitare gli impianti Foxconn. «Ci siamo resi conto che anche le autorità  di governo erano preoccupate dalla situazione. È chiaro che anche loro non vogliono vedere i piazzali delle fabbriche piene di operai che protestano. Meglio allora portarli intorno a un tavolo e discutere», ha detto al Financial Times Auret van Heerden della «Fair Labor Association».
Finora nelle fabbriche cinesi il sindacato ha svolto solo il ruolo di controllore per conto del governo e del partito comunista. E alla Foxconn, per esempio, il presidente dell’unione sindacale oggi è il signor Chen Peng, ex capo dell’ufficio personale del fondatore e amministratore delegato Terry Gou. Per il potente Terry Gou, dicono fonti bene informate, il ruolo del sindacato dev’essere di contrappeso alle richieste di riduzione dell’orario di lavoro e di consiglio agli operai su come accrescere la loro capacità  professionale. A riprova di questa funzione di fiancheggiamento, quando lo scorso autunno sono scoppiati incidenti in una fabbrica di Zhengzhou e i «delegati sindacali» sono accorsi per cercare di fermarli, molti operai hanno avuto il coraggio di affrontarli urlando: «Chi siete, non vi abbiamo mai visto alla catena di montaggio».
Naturalmente restano diversi grossi punti interrogativi su quest’alba sindacale. Quanto saranno libere le elezioni dei delegati in un Paese che non ammette il voto politico (o anche solo televisivo) e il dissenso? E quanto potere contrattuale avranno i nuovi consigli di fabbrica? «Solo se i lavoratori saranno lasciati davvero liberi di nominare i loro candidati e poi decidere chi votare ci sarà  un cambiamento importante», ha detto alla Reuters la professoressa Wang Jing, preside del dipartimento relazioni industriali dell’Università  di Economia di Pechino. «Comunque stiamo vedendo uno sviluppo positivo», ha concluso.
Pessimista la dottoressa Anita Chan del China Research Center di Sydney: «La Foxconn non è la prima società  privata che ha parlato di elezioni democratiche in Cina. Ci sono già  state Reebok, Walmart e Honda. Tutte hanno catturato grande attenzione internazionale e poi niente è cambiato».
Guido Santevecchi


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