Il biglietto d’addio dentro la Costituzione “Senza lavoro non c’è dignità , mi uccido”

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TRAPANI — Una corda intorno al collo in nome dell’articolo 1 della Costituzione. Un pizzino disperato. L’ultimo. Infilato tra le pagine del libro della Repubblica Italiana. Su quel pezzo di carta, che ha voluto con sé fino alla fine, Giuseppe ha scritto con cura certosina l’elenco dei morti di disoccupazione degli ultimi due anni: se li è appuntati uno a uno, copiandoli dalle cronache dei giornali. L’ultimo nome in fondo alla lista è il suo; poche ore dopo finirà  sul verbale dei carabinieri che lo trovano impiccato a una trave sotto casa.  A fianco, vergate di suo pugno, due frasi secche. «Se non lavoro non ho dignità . Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione».
Guarrato, 1.300 abitanti in provincia di Trapani, sulla strada per Marsala. Nel giardino della villetta dei Burgarella, muratori sindacalisti (Cgil), c’è un gazebo: tavolo di legno, quattro sedie, gli attrezzi. Da quando gli hanno tolto la «dignità » Giuseppe, non trovando altro da fare, ci va ogni mattina a mettere in ordine. Sessantuno anni, è il più giovane dei due fratelli. Ha iniziato da ragazzino segando il marmo, dai 30 in poi sempre e solo mattoni. L’ultimo contratto è datato 2000: poi la Cooperativa CELI di Santa Ninfa, una delle tante nate nel trapanese dopo il terremoto che nel 1968 sconvolge la Valle del Belice, lo lascia a casa perché non c’è lavoro nemmeno per i soci. Per due anni Giuseppe riceve l’indennità  di disoccupazione: 700 euro al mese. Ma lui vuole lavorare. Non solo il bisogno economico — non è
sposato e non ha figli, all’inizio riesce a stare a galla con l’indennizzo. È che non riesce a stare senza. «Era l’unica cosa che lo faceva sentire realizzato», dice il fratello Giovanni. «Viveva la disoccupazione come una situazione di oppressione ».
È sabato notte. Una settimana fa. Giuseppe decide che così può bastare. Tre anni di stop forzato, «senza dignità », tre anni di pensieri e, infine, di richieste d’aiuto. Cadute nel vuoto. «Non abbiamo compreso fino in fondo la sua situazione, non lo abbiamo saputo aiutare», dice Franco Colomba della Fillea di Trapani. Eppure si
era fatto sentire, il muratore di Guarrato. Ultimamente aveva scritto due lettere: una al presidente Napolitano e una a Susanna Camusso, segretario della Cgil, il sindacato al quale Burgarella era iscritto da sempre (faceva parte del direttivo provinciale della Fillea). Nelle missive aveva messo nero su bianco tutto il suo disagio, una sofferenza mai spenta e che non riusciva più a tenere per sé. «L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di disoccupazione? Perché non mi restituisce la mia dignità ?». Fino alla minaccia finale. «E allora se non lo fa lo Stato lo debbo fare io…».
Il gazebo. Una corda e una sedia. Alle 8.30 di domenica il fratello Giovanni lo trova cadavere. Gli accertamenti dei carabinieri di Trapani escludono piste “altre”: né debiti, né malattie incurabili, né movente sentimentale. Certo: Burgarella, da qualche mese, era entrato in uno stato di depressione. All’ultima assemblea degli edili della Cgil trapanese, però, era la fine dell’anno, aveva preso la parola. Se lo ricordano per nulla rassegnato, ancora pronto a battersi per uscire dalla condizione da cui
«nessuno riesce a togliermi. E come me tanti lavoratori che qui sono rimasti a casa». Si era persino speso nella trattativa per il rinnovo del contratto integrativo degli edili. Nessuno sapeva che, «orgoglioso e tutto d’un pezzo», come lo descrive la sorella più giovane, stava così male; e che in privato si era deciso a chiedere aiuto. Aveva scritto direttamente a Roma. I carabinieri gli trovano in tasca copie delle lettere. «Al presidente Napolitano…». «A Susanna Camusso…». Non distante dal corpo senza vita dell’uomo, una versione-opuscolo della Costituzione con dentro il pizzino dei suicidi “da disoccupazione”.
La lista di «quelli come me», che si chiude, infatti, col suo nome. «Mi tolgo io dalla condizione».
La storia resta avvolta nel silenzio. Nessuno scava dietro il suicidio di Guarrato. Nemmeno la stampa locale. Ne parlano solo gli anziani in piazza, i “compagni” di Burgarella, una famiglia di militanti del vecchio Partito comunista. Ma quello di Giuseppe è un suicidio esemplare. Dopo quelli degli imprenditori del Nord, è, non solo geograficamente, l’altra faccia della medaglia della crisi. «Qui nel profondissimo Sud, soprattutto in piccole realtà  periferiche, la mancanza di lavoro è drammatica — ragiona ancora Franco Colomba — e finisce per emarginare. Toglie la dignità , porta alla disperazione e, purtroppo, anche alla morte». La tragica protesta di Giuseppe? «Sembrava forte, si sentiva protagonista e quello che ha lasciato scritto lo testimonia. Il fatto di non averlo saputo aiutare ci segnerà  per tutta la vita. Ma sono convinto che lui voleva che se ne parlasse. Per evitare che altri facciano la sua fine».
Sembra una beffa del destino, o un supplizio di pena: un dirigente sindacale che si batte per gli altri e intanto è disperato, in segreto, perché non riesce più a fare il mestiere che ha sempre fatto: il muratore. Che scrive al suo segretario nazionale e poi si impicca. Un dramma che ferisce anche la Cgil al suo interno. Walter Schiavella, responsabile nazionale Fillea: «Vedo ogni giorno negli occhi dei lavoratori la paura di perdere il proprio posto di lavoro, ma nella maggior parte dei casi la disperazione di non sapere come tirare avanti senza lavoro o con 700euro di cassa integrazione o vendendo la propria fatica per 20 euro al giorno nei mercati illegali delle braccia. E allora ti chiedi che ci stai a fare, come mai non riesci a fermare questa valanga impazzita ». Giuseppe era andato subito al dunque: all’articolo 1 della Costituzione. Anche lui, alla fine, si è chiesto che ci stava a fare.


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