La tolleranza razziale resta un imperativo globale

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Una manifestazione di neri e “colorati” come molte altre di quell’anno, indette per protestare contro la stretta della segregazione razziale imposta dal National Party nel secondo dopoguerra e che dal 1952 aveva aggiunto ai provvedimenti di segregazione razziale nell’educazione, nel lavoro, nella sfera familiare, nelle libertà  civili e politiche fondamentali, anche la cosiddetta “legge del lasciapassare”, che prevedeva che i cittadini sudafricani neri dovessero esibire uno speciale permesso se fermati dalla polizia in un’area riservata ai bianchi. I lasciapassare venivano concessi però solo ai neri che avevano un impiego regolare nell’area in questione, un elemento non di poco conto: la norma si poneva così da anni come un ulteriore limite alla libertà  di movimento (oltre che di residenza) per non bianchi all’interno del territorio nazionale.

La spinta emozionale suscitata dal massacro di Sharpeville fu tale che nel 1966 l’Organizzazione delle Nazioni Unite, su impulso dei Paesi afro-asiatici di nuova indipendenza che in quegli anni erano entrati a far parte della struttura multilaterale, individuò nella data del 21 marzo la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale. L’obiettivo, come di consueto, era di esortare la comunità  internazionale a raddoppiare gli sforzi per eliminare tutte le forme di discriminazione razziale, anche rescindendo i legami con quegli Stati che strutturavano o non intervenivano in situazioni di segregazione razziale, attraverso l’osservanza di embarghi economici e politici.

Se infatti il regime sudafricano, per l’ampiezza e la profondità  dell’aberrante sistema di segregazione creato, si sostanziava perfettamente quale modello negativo, vi erano però anche altre popolazioni “non bianche” che subivano un’analoga sorte. Gli attuali territori della Namibia, dello Zimbabwe, dell’Angola e del Mozambico ad esempio. Ma non solo in Africa meridionale. La battaglia per i diritti civili condotta dagli afro-americani negli Stati Uniti si mise anch’essa in moto nella metà  degli anni Cinquanta, raggiungendo secondo alcuni un compimento solo oggi, a seguito dell’elezione di un presidente non bianco. Al pari, anche lo smantellamento del regime di apartheid è piuttosto recente, sancito simbolicamente dall’elezione di Nelson Mandela a presidente della Repubblica nel maggio 1994.

Dunque non si deve guardare alla vittoria sull’apartheid e alla sua commemorazione soltanto come un motivo di compiacimento, ma come una nuova chiamata all’azione. Tanto è vero che proprio quando le luci sull’odio razziale si stavano abbassando in Sudafrica, iniziarono a divampare focolai di guerra mossi da contrasti e discriminazioni etniche e razziali nel cuore dell’Europa, e precisamente nella ex Jugoslavia.

Ma questa commemorazione serve anche a segnalare la rinascita di altre ideologie e pratiche razziste, in particolare nei settori economico e sociale, e la persistenza delle forme sottili di razzismo e di discriminazione razziale che assumono le forme di nazionalismo o di preferenza nazionale o continentale. Ci ricorda che il nostro mondo, nonostante i progressi tecnologici e i mass media abbiano fatto molto per aumentare la comunicazione internazionale, la conoscenza e la comprensione, non è esente da xenofobia, odio e focolai di conflitti etnici. Sui cinque continenti, i lavoratori migranti, i richiedenti asilo, le minoranze etniche, nazionali e religiosi e le popolazioni indigene sono ogni giorno di fronte a pratiche discriminatorie ed esposti alla violenza razzista. La libertà  di circolazione tra i diversi paesi è sempre più sottoposta a misure restrittive, alcune delle quali sembrano essere ispirate da considerazioni razziste e xenofobe.

Nonostante, dunque, i sistemi di segregazione razziale più aberranti siano venuti meno negli ultimi decenni, molte rimangono le forme di discriminazione razziale ancora diffuse nel mondo, anche nell’Europa campione nella tutela dei diritti umani.

Miriam Rossi


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