Il blitz sulle pensioni d’oro e la «leggina» più veloce della Repubblica

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«L’Italia è il Paese che amo…» erano le prime parole che Silvio Berlusconi pronunciava nel videomessaggio registrato che il pomeriggio del 26 gennaio 1994 annunciava la sua «discesa in campo». Nello stesso Paese, in quelle stesse ore, mentre in Parlamento suonava la campanella del «liberi tutti», sulla Gazzetta Ufficiale compariva una leggina di dieci righe, approvata dal Parlamento il giorno prima a tempo di record e a tempo di record pubblicata.

Si sparse subito la voce che era stata fatta apposta per Biagio Agnes, l’ex direttore generale della Rai che da qualche anno aveva traslocato alla Stet, la finanziaria telefonica pubblica. Non era una malignità infondata. Quella leggina favoriva il passaggio al fondo dei telefonici presso l’Inps di chi godeva già di una pensione di una gestione diversa, magari di un altro fondo dello stesso istituto di previdenza. Fu così che Biagio Agnes, pensionato dal 1983, riuscì a decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese. Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l’approvazione della legge.
La cosa non passa inosservata. I Cobas del pubblico impiego diramano un comunicato al fulmicotone, rivelando che la ricongiunzione costerà alla Stet, cioè allo Stato (nel 1994 i telefoni sono ancora pubblici) e ai risparmiatori che hanno comprato il titolo in borsa, qualcosa come 5,8 miliardi di lire. Oggi sarebbero più di quattro milioni e mezzo di euro.
Qualche giorno dopo che quelle dieci righe hanno tagliato in Senato l’ultimo traguardo, Dino Vaiano spiega sul Corriere com’è andata. Cominciando dagli autori. Il primo a correre in soccorso dell’irpino Agnes è il lucano Romualdo Coviello, deputato di Avigliano, in provincia di Potenza. Democristiano di sinistra come Biagione, non tradirà mai la causa. Dalla Dc ai popolari, alla Margherita. Racconta Vaiano: «Sono giorni caldi, le commissioni lavorano come slot machine, strizzando l’occhio alle lobby e alle categorie che potrebbero garantire voti. Le leggi decollano, fedeli all’equazione degli anni ruggenti della partitocrazia: spesa pubblica uguale voti. Perfino gli attenti funzionari parlamentari ammettono di non averci capito quasi nulla. Ma la rapidità è da record. La leggina sulle pensioni d’oro corre come Speedy Gonzales…»
Il primato di velocità è tuttora imbattuto. Non così l’assegno. Abbiamo infatti scoperto che nel 2013 c’è chi, l’ex manager della Telecom inventore della «carta prepagata» Mauro Sentinelli, porta a casa 91.337 euro al mese. Il triplo di quanto varrebbe oggi la pensione di Agnes, che allora sembrava stratosferica. E il doppio di quella, addirittura extraterrestre, cui ha diritto dal 1999, quando aveva 55 anni, il suo ex capo Vito Gamberale: partiva da 75 milioni e 600 mila lire al mese.
La leggina di cui stiamo parlando, in realtà, non fece che aggiungere un altro privilegio a quello monumentale già riservato al fondo Inps dei telefonici. Al quale non si applicava il tetto massimo dei 200 milioni di lire l’anno. La ragione? Semplice: nessuno dei dipendenti arrivava a quella cifra. Soltanto che a quel fondo si erano iscritti anche i manager. Tutti, anche se in teoria avrebbero dovuto versare i contributi all’Inpdai. Ma dato che all’Istituto previdenziale dei dirigenti d’azienda alle pensioni d’oro era in vigore appunto quel limite, avevano evidentemente preferito confondersi con gli operai e gli impiegati nel fondo dei telefonici. E quando gli stipendi hanno cominciato a lievitare come la panna montata, l’ondata di piena è stata terrificante. Anche perché le regole del contributivo garantivano pensioni praticamente identiche all’ultimo stipendio. Il capo della Sip Paolo Benzoni andò via con 39,2 milioni di lire al mese. Ernesto Pascale con 42. Francesco Chirichigno con 36. Umberto Silvestri con 38,5. Francesco Silvano con 37,3. L’elenco delle superpensioni telefoniche è sterminato, ed è arrivato fino a noi. Senza offrire risposta alla domanda più banale: perché in tanti anni non sono mai state cambiate le regole? Difficile dire.
Certo, però, nel Bengodi pensionistico made in Italy i telefonici sono sempre stati in buona compagnia. Tetto o non tetto. Basterebbe ricordare i sontuosi trattamenti previdenziali dei dirigenti dell’Enel, che potevano aggirare il limite dei 200 milioni annui grazie a un faraonico fondo integrativo aziendale pagato dagli utenti con le bollette. Memorabili alcune pensioni, come quelle dei due direttori generali che si sono succeduti prima della trasformazione in spa, Alberto Negroni e Alfonso Limbruno, che si ritirarono entrambi con assegni da 37 milioni (di lire) al mese.
Somme certamente enormi. Che fanno però sorridere al confronto di certe pensioni garantite, secondo regole che nessuno ha mai voluto mettere davvero in discussione, dallo Stato. L’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini, ex sottosegretario alla presidenza con Mario Monti, ha dichiarato di percepire una pensione di 519 mila euro lordi l’anno. Somma alla quale si deve aggiungere ora lo stipendio da Consigliere di stato. Perché le pensioni d’oro, da noi, hanno una particolarità: spesso chi le incassa continua a lavorare, talvolta ricoprendo incarichi pubblici altrettanto dorati.
Per non parlare di altre micidiali stravaganze. La nomina a capo dell’Agenzia siciliana dei rifiuti, l’avvocato Felice Crosta, dirigente della Regione, fu accompagnata da un emendamento approvato anch’esso in un baleno dall’assemblea regionale grazie al quale gli venne riconosciuta di lì a poco una pensione di 460 mila euro. Dopo un’estenuante battaglia legale quell’assurdità è stata cancellata. Ma la storia la dice lunga su come funziona ancora l’Italia: tutto sommato, non è poi così diversa da quella della leggina che favorì Agnes e forse pochi altri.
Ed è per questo che nel Paese dove le persone normali la pensione se la sognano, mentre le pensioni d’oro si accompagnano di regola a una retribuzione sontuosa, sarebbe forse il caso di prenderla seriamente in considerazione, la proposta avanzata da Bruno Tabacci, Angelo Rughetti, Andrea Romano e Fabio Melilli in una lettera al Corriere: i pensionati d’oro che intascano stipendi (pubblici) d’oro scelgano fra la pensione e lo stipendio. È una richiesta così scandalosa?
Sergio Rizzo


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