Ajello, il cronista della storia

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È stato prima di tutto un uomo di rara civiltà e statura morale, Nello Ajello, un napoletano dall’ironia sottile e inesauribile, con radici molto profonde nella storia intellettuale e civile della sua città, ma costituzionalmente estraneo e avverso a tutti i cliché sulla napoletanità. Sin da giovanissimo si era mosso, come ha voluto ricordare l’esponente più illustre della sua particolarissima schiatta di napoletani anglosassoni, Giorgio Napolitano, «al confine tra giornalismo, cultura e politica». E lo aveva fatto da giornalista che non avrebbe scambiato con nessun altro il suo mestiere, di cui pure conosceva alla perfezione i limiti per così dire intrinseci, nella convinzione che ricostruire e raccontare un fatto sia cosa più importante, e comunque più affascinante, che impancarsi a formulare teorie generali o leggi più o meno bronzee della politica, dell’economia e del pensiero.
Chissà se più colto o più curioso, se più appassionato delle idee o delle persone e delle cose, ha spiegato a generazioni di giovani colleghi (difficile dire con quanto successo) che, se non ci si diverte a fare i giornalisti, è meglio cambiare lavoro. Nello, dicevamo, non ha mai pensato di cambiarlo. Anche perché, nel farlo, si è divertito moltissimo.
È, la sua, una biografia professionale, culturale e politica molto lineare: la biografia di un liberaldemocratico (ma forse sarebbe meglio dire, più semplicemente: di un uomo libero) che è sempre rimasto tale, sentendo più vicina la sinistra, sì, ma senza mai suonarle il piffero, e anzi con disincanto e pessimismo. I primi passi li ha mossi nella sua Napoli, a «Nord e Sud», la prestigiosa rivista laica, meridionalista ed europeista fondata, nel 1954, da Francesco «Chinchino» Compagna, che aveva, per dirimpettaia politica e intellettuale, la socialcomunista «Cronache Meridionali».
I passi successivi sono stati conseguenti: prima «Il Mondo» di Mario Pannunzio, poi l’Olivetti. E poi ancora «L’Espresso», di cui è stato a lungo, negli anni della direzione di Livio Zanetti, condirettore. E infine «la Repubblica», che lo ha visto nel gruppo dei fondatori e, sin quasi alla fine, tra le sue firme di eccellenza: lavoratore ironico e autoironico, sì, ma pure instancabile, i suoi ultimi articoli (come sempre esemplari anche per accuratezza e rigore filologico) li ha dedicati, nei giorni dell’agonia della sua Giulia, alla ricostruzione della caduta del regime fascista il 25 luglio del 1943.
È stato, Ajello, un giornalista culturale. Ha fatto cioè un lavoro in cui, diceva scherzando ma non troppo, si rischia sempre di stare in bilico tra il professore che non sa scrivere e il dilettante che magari sa scrivere, ma non sa. Non è caduto in nessuna di queste due trappole. Sapeva, e sapeva anche scrivere. Tenendo sapientemente insieme l’«alto» della storia delle idee e il (presunto, molto presunto) «basso» delle vicende umane, con tutte le debolezze, le miserie, i tic, e sovente l’involontaria comicità che queste, nel loro divenire, si portano inevitabilmente appresso. Perché, sosteneva, «quelli che si usa chiamare gli intellettuali, hanno facce, abitudini, ossessioni, languori come qualunque altro cittadino», ed è quindi possibile «raccontarne senza sussiego gli atti e i pensieri», e pure «rubargli aneddoti, indiscrezioni, malignità, affetti, sorrisi». Senza cadere nella banalità del gossip. Ma facendo, piuttosto, del giornalismo, del buon giornalismo: «Un giornale è per definizione quanto di più pragmatico e di meno protocollare esista, anche quando ospita temi culturali».
Valgono, questa logica e questo stile, anche per i suoi libri. Per tutti, da ultimi quei Taccuini del Risorgimento (Laterza, 2011) in cui, narrandoci giorno per giorno e quasi ora per ora, «dall’alto» e «dal basso», le vicende patrie dal 20 febbraio al 17 marzo 1861, Ajello ci riferisce pure di una nota della presidenza del Consiglio in cui si smentiscono le voci secondo cui lo scapolo impenitente Cavour sarebbe stato sul punto di sposare una ricca signora inglese. Ma soprattutto per l’opera sua — a mio parere almeno — più importante, i due volumi laterziani sui rapporti tra gli intellettuali e il Pci: un’opera tuttora insuperata per una ricchezza di documentazione e per una finezza interpretativa quasi stupefacente in uno scrittore che i comunisti li aveva frequentati da vicino, certo, ma le segrete cose del partito le aveva sempre seguite dall’esterno, e a distanza di sicurezza.
Ci mancheranno, mi mancheranno di Nello la cultura profonda, l’eleganza intellettuale e la passione distaccata, che dosava tenendo sempre tirato il freno a mano dell’ironia. Il giornalismo italiano ha perso un suo esponente di rango. Speriamo ne serbi, in un modo o nell’altro, la lezione.


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