La Gran Bretagna fuori dall’Europa non è solo una minaccia elettorale

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L’ultimo colpo di frusta è del cancelliere dello scacchiere George Osborne: o si riforma l’Europa o il Regno Unito esce dal club dei 28. Londra vuole riprendersi alcuni dei poteri delegati a Bruxelles. L’ennesima minaccia. Ma liquidare le «provocazioni» dei conservatori semplicemente come un’arma elettorale ad uso interno è riduttivo.
David Cameron ha promesso un referendum sull’Europa nel 2017 al quale intende presentarsi con un nuovo patto di Unione. L’euroscetticismo di Cameron e di Osborne è profondo. E non è finalizzato a provvisori giochini elettorali. È qualcosa che appartiene alla loro sfera culturale e politica, alla loro nostalgia di una Gran Bretagna imperiale e dominante, alla loro aspirazione (legittima) di pensarsi protagonisti della globalizzazione come nazione e non come Europa. Accettano l’Europa se snellisce il mercato, se stimola la competizione e se non vi sono ingerenze nelle politiche di casa. Il loro è un protezionismo politico più che economico.
L’Europa con la sua burocrazia asfissiante ha consegnato agli euroscettici più di un motivo (fondato) per organizzare le barricate. Le riforme della Ue sono necessarie. David Cameron lo sa e spinge, confidando sulla sponda di Angela Merkel e di altre capitali (non esclusa Roma). Il problema è che i suoi strappi e quelli del suo amico Osborne, ripetuti e a volte scomposti, non sembrano favorire il dialogo sull’integrazione funzionale quanto, piuttosto, prefigurano l’irrigidimento.
La strategia dell’accelerazione rischia di apparire un basso espediente elettorale. Ridisegnare l’Europa chiede tempo e mediazioni. E se Cameron ne ha poco (il 2015 le elezioni in Gran Bretagna e il 2017 il referendum) è perché si è voluto cacciare da solo in quello che potrebbe essere per lui un vicolo cieco.


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