Il peccato Capitale

Il peccato Capitale

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PAOLO CONTI e SERGIO RIZZO, Corriere della Sera

A Roma si sta consumando il fallimento di una intera classe dirigente, per non dire di tutti gli italiani. Tanto sconcertante è la superficialità con cui la capitale di una delle prime dieci potenze economiche ha rischiato il fallimento per la seconda volta in sei anni. Già al tempo del primo crac, nel 2008, un Paese serio avrebbe imposto un rigoroso piano di risanamento strutturale dei conti comunali. Ma qui non è avvenuto. Le cronache ci hanno anzi raccontato, dagli scandali di parentopoli in poi, di un progressivo decadimento finanziario, qualitativo e persino morale. Fino al capolavoro di questi giorni, quando il Palazzo si è mostrato di nuovo incapace di porre rimedio all’emergenza dei conti del Campidoglio. Le colpe sono equamente distribuite fra un governo pasticcione e un Parlamento con scarso senso di responsabilità, ma anche una amministrazione debole e frastornata. Nessun sindaco al mondo avrebbe minacciato di bloccare la città per ritorsione, e bene ha fatto Renzi, sindaco pure lui fino a ieri, a mostrargli i denti.
Questa clamorosa débâcle collettiva trova raffigurazione plastica nello stato di degrado in cui versa un luogo simbolo dell’unità nazionale. Nell’indifferenza generale la Breccia di Porta Pia è assediata dai rifiuti, ridotta a rifugio notturno dei senza tetto. Un trattamento inconcepibile in qualunque altro Paese civile. Il fatto è che Roma non è Parigi, non è Londra, né Berlino, perché l’Italia non è la Francia, non è la Gran Bretagna, né tantomeno la Germania. Roma non rappresenta l’identità nazionale per il semplice fatto che l’Italia, a 153 anni dalla sua unità, non vive se stessa alla stregua di un Paese unito: concetto che negli ultimi vent’anni si è ulteriormente sbiadito, fra le urla padane e i rancori di certi pseudomeridionalisti. Dunque i problemi di Roma non sono altro che i problemi dei romani, certo non degli italiani.
Una visione ottusa e provinciale che spiega i cronici mali di una città mai affermatasi come il vero baricentro culturale del Paese. Del resto, con rare e ben note eccezioni, nel dopoguerra non sempre Roma è stata guidata da personalità di spessore adeguato. Sulla poltrona di sindaco si sono seduti anche palazzinari, piccoli funzionari di partito, autentiche macchiette dei potentati locali. Quella zona grigia dove la politica si mischia agli affari ha sfregiato la città con speculazioni inenarrabili e inquinato l’amministrazione con un coacervo di interessi privati e clientelari: il risultato è che il Comune di Roma oggi paga oltre 60 mila stipendi, più del doppio dei dipendenti italiani del gruppo Fiat, offrendo ai cittadini servizi scadenti. E pure le speranze di un cambio di passo giustamente generate dall’elezione diretta del primo cittadino sono via via naufragate. Gli ultimi due sindaci lo sono diventati quasi per caso. Nel 2008 Gianni Alemanno ha vinto le Comunali contro ogni pronostico. E cinque anni più tardi Marino si è ritrovato al Campidoglio al posto del predestinato Nicola Zingaretti, dirottato alla Regione Lazio. Amministra la città insieme a 48 consiglieri comunali che si fregiano addirittura del titolo di «onorevoli», come fossero i continuatori ideali dell’antico Senato romano. Altri tempi, altra Roma: quando era capitale del mondo. Questa, invece…



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