Michal Rotem, l’ebrea che traduce i nomi dei morti «Gli arabi uccisi non sono solo numeri»

Michal Rotem, l’ebrea che traduce i nomi dei morti «Gli arabi uccisi non sono solo numeri»

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BET SHEMESH — Un cognome che si ripete ancora e ancora, un bambino, un altro, l’età di un adulto, adesso un vecchio, una donna. È una famiglia. La storia emerge dalle lettere in arabo, come leggere le foglie del té: il destino questa volta è già deciso, non c’è un futuro ad aspettare. La lista di Michal non smette di allungarsi. La ragazza israeliana passa le giornate a scavare nel sito del ministero palestinese della Sanità, a raccogliere le informazioni dei volontari a Gaza. Per dare un nome ai morti che spesso sui giornali restano un numero.
Michal Rotem, 27 anni, in questi giorni ha lasciato Beersheba, la casa dove vive non ha un rifugio, troppo pericoloso con i missili sparati dalla Striscia per bersagliare quella che è considerata la capitale del deserto del Negev. Sta da un amico a Bet Shemesh, tra le colline a ovest di Gerusalemme. Le sirene d’allarme suonano anche qui, almeno nel palazzo c’è la stanza protetta dove scappare. «Al mattino cerco le vittime palestinesi della notte di attacchi da parte del nostro esercito — racconta —, traduco dall’arabo all’ebraico, scrivo l’età, aggiungo all’elenco, so che non tutti sono civili, qualcuno di loro potrebbe aver provato ad ammazzarmi».
La lista — ieri sera i morti erano 235 — viene pubblicata dal sito Siha Mekomit (Chiamata locale), molto popolare. «Non mi illudo che in tanti la leggano o che i giornali israeliani più venduti la riprendano. Con altri attivisti della sinistra pacifista abbiamo pensato fosse necessario. La maggior parte dei quotidiani non ha neppure citato i nomi dei quattro bambini uccisi mercoledì sulla spiaggia. Gli unici caduti che vengono identificati sono i comandanti di Hamas, obiettivi militari da sfoggiare».
A Beersheba, nelle notti di guerra, qualcuno ha cominciato a scrivere sui muri con lo spray i nomi che Michal ha raccolto, quasi una provocazione nel sud di Israele sotto bombardamento dove i sindaci invocano di occupare Gaza e farla finita con i fondamentalisti. «Posso immaginare chi sia, il nostro gruppo in città non è grande. È un gesto, una sfida e almeno in posti come Tel Aviv i giovani ne stanno parlando. Mi impongo di credere, forse per disperazione, che la mia lista potrà avere un impatto, spingerà la gente a voler fermare questo conflitto».
Qualche volta incontra un cognome che riconosce. Ha dedicato la tesi di dottorato ai villaggi beduini dichiarati illegali dal governo israeliano, conosce i capi clan, le famiglie che hanno legami con quelle dall’altra parte della barriera. In una sorta di introduzione al suo lavoro di questi giorni invita i lettori «a pronunciare i nomi ad alta voce uno dopo l’altro. Non importa quale sia la vostra ideologia politica o che cosa pensiate di Gaza. Potete anche solo scegliere quelli dei bambini».
Davide Frattini



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