La working class bianca vittima della crisi

La working class bianca vittima della crisi

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È uno di quei dati a prima vista sorprendenti che rivelano tutta la complessità e le contraddizioni della realtà sociale degli Stati Uniti. Secondo uno studio pubblicato all’inizio della settimana dalla National Academy of Sciences, il tasso di mortalità della parte più povera della popolazione bianca, in particolare nella fascia di età compresa tra i 45 e i 54 anni, è aumentato nel corso dell’ultimo decennio in modo talmente significativo — ha fatto registrare un +134 ogni 100mila individui -, a causa delle patologie legate all’abuso di alcool e droga, ma anche ai suicidi, da entrare di diritto nelle statistiche. Questo mentre nello stesso periodo, l’età media degli appartenenti alle comunità ispaniche e afroamericane, della medesima fascia sociale, non ha fatto invece che aumentare e il numero dei decessi si è sensibilmente ridotto. Il che non significa però che le discriminazioni siano cessate, bensì che l’emarginazione sociale è andata oltre il colore della pelle. Frutto della ricerca di due economisti dell’Università di Princeton, il neo premio Nobel, lo scozzese Angus Deaton, e sua moglie, Anne Case, l’indagine è nata quasi per caso. È infatti analizzando il rapporto potenzialmente esistente tra il benessere economico, il senso di realizzazione individuale e il numero di suicidi nelle società occidentali che i due si sono resi conto di come proprio negli Usa, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2013 e tra coloro che svolgevano lavori manuali o saltuari e avevano a stento terminato le scuole superiori, vi fosse stato un elevato aumento di casi. «I dati sono in netta controtendenza rispetto ai due decenni precedenti che hanno visto ridursi in modo sensibile la mortalità e riguardano specificamente gli Stati Uniti: nessun altro paese sviluppato e ricco ha una condizione anche solo lontanamente paragonabile. Nell’ultimo mezzo secolo, dopo le morti dovute al consumo di tabacco, solo l’Aids aveva provocato qualcosa di simile», ha sottolineato Deaton.
Ma, i motivi addotti per spiegare questo aumento della mortalità tra i settori impoveriti o marginali della comunità bianca, risultano forse ancor più inquietanti degli stessi «numeri» del fenomeno. Approfondendo le loro ricerche, Deaton e Case, avevano infatti immaginato che a pesare su questo tragico bilancio potessero essere l’aumento delle malattie cardiovascolari o del diabete. Niente di tutto ciò. Sono la droga e l’alcool gli altri fattori che hanno deciso tra la vita e la morte. L’ulteriore marginalizzazione di una parte della popolazione bianca, spesso composta da ex operai o in ogni caso da famiglie della working class, segnala inoltre un fenomeno ancor più vasto, vale a dire il progressivo sfumare per una fetta sempre più ampia degli statunitensi della prospettiva di accedere al «sogno americano». Una perdita di status che per gli studiosi della celebre università del New Jersey è evidenziata anche dalla forte diminuzione di reddito registrato da oltre il 20% delle famiglie del paese e dal parallelo incremento delle pensioni di invalidità, cresciute di oltre il 30% nel corso dell’ultimo decennio dominato dalla crisi. Perciò, per i due economisti, «anche se questa epidemia di suicidi, di casi di overdose e di patologie «sociali» ha preso avvio prima dell’inizio della crisi finanziaria, è possibile metterla in relazione con la crescente insicurezza economica che domina la vita di tanta gente. Molti bianchi che appartengono alla generazione del baby-boom, e che hanno perciò tra i 40 e i 50 anni, si sono improvvisamente resi conto che la loro vita non sarebbe più stata migliore di quella dei loro genitori».



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