Donne nella rivoluzione e nella ricostruzione di Kobanê

Donne nella rivoluzione e nella ricostruzione di Kobanê

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Ce le  presentano come eroine uscite dal nulla che, armi in mano, lottano al fianco degli uomini, difendendo l’ormai epica città di  Kobanê, ma le giovani miliziane e le loro comandanti sono, invece, le continuatrici di quella che è già una “tradizione” tra le donne kurde, lottare per la libertà del loro popolo e per la loro stessa liberazione. Dietro queste immagini e notizie si nasconde la vera storia del  processo di liberazione della donna in kurdistan, in cui il PKK ha giocato un ruolo fondamentale.

E’ curioso e per certi versi anche morboso l’interesse dei grandi mezzi di comunicazione occidentali nei confronti della presenza rilevante di donne nella battaglia contro lo Stato Islamico a Kobanê. Si sprecano fiumi di inchiostro per spiegarci come le “leonesse” kurde terrorizzano i militanti dell’ISIS o come mantengono il loro sguardo glaciale mentre uccidono islamici. Numerose fioccano le “leggende”, ovviamente false, su alcune di loro.

 

Le immagini di queste miliziane hanno fatto il giro del mondo, riproposte in un macabro loop da media e reti sociali senza che nessuno in realtà si preoccupi di verificare le ragioni e i precedenti di un fatto così importante, in palese contrasto con la situazione della donna in questa regione del mondo.

 

Dietro tanto “interesse” si può intuire la riproduzione, ancora una volta, di forme di pensare e leggere il mondo che mescolano il machismo ad un neo-colonialismo reiterativo e insistente. La verità, così come un lavoro di informazione profonda e la conoscenza dell’”altro” sono anche loro, in generale, vittime dei conflitti.

 

In questo contesto, fatte salve alcune lodevoli eccezioni, predominano l’ignoranza, la non conoscenza e anche un malsano interesse sulla resistenza del popolo kurdo (il popolo senza stato più numeroso al mondo) contro i suoi molteplici nemici e su come le donne kurde stiano in realtà mantenendo un profondo e antico impegno nella lotta per la libertà del loro popolo.

 

Chiedersi (e soprattutto rispondersi) come, quando e perché in una società così patriarcale e feudale come era quella kurda, le donne hanno preso le armi per lottare per la loro liberazione, parallelamente a quella del loro popolo, è non solo scomodo ma anche politicamente “pericoloso” per i pregiudizi riprodotti da una matrice chiaramente occidentale.

 

La storia del popolo kurdo (in Iran, Siria, Turchia, Iraq, Armenia e nella diaspora) è piena di storie personali – e per questo collettive – di donne impegnate. Pensiamo alla guerrigliera Telli Xanim, moglie del comandante Yado, che prese parte nella rivolta di Seik Said nel 1925, o a Zerîfe Xanim, che ha combattuto ed è morta insieme a suo marito, il poeta Elîsêr durante la rivolta di Dersim nel 1938. Avvicinandosi nel tempo potremmo far riferimento a donne che hanno scritto la loro storia, molte ancora da recuperare e raccontare, come nel caso dell’Assiria Margaret George Shello che entrò nei peshmerga nel 1960 ad appena vent’anni, o la kurda Leyla Qasim condannata a morte dal regime del Ba’ath nel 1974.

Per comprendere la partecipazione delle donne nella vita e nelle lotte del Kurdistan in anni più recenti, bisogna fare riferimento al cambio radicale che ha presupposto la nascita del PKK, nel 1978, e le posizioni difese dal suo principale leader, Abdullah Ocalan. La constatazione della grande presenza di donne nella difesa di Kobanê, obbliga senza esitazioni a riconoscere il ruolo del PKK e della sua dirigenza nelle lotte e conquiste che hanno avuto come protagoniste, negli ultimi trent’anni, tante donne kurde.

Allo stesso modo, e per quanto per molti sia “scomodo”, bisogna sottolineare la posizione netta e l’azione politica di Ocalan che sempre ha sostenuto che la liberazione del Kurdistan passa necessariamente e inevitabilmente attraverso la liberazione delle donne. Una posizione che è stata anche un nuovo punto di partenza per il movimento kurdo.

 

Senza addentrarci nell’analisi del pensiero di Ocalan (non è questo l’ambito), basti dire che il leader del PKK (incarcerato dal 1999 nel carcere di massima sicurezza dell’isola turca di Imrali) sintetizzava nel 2010 concetti molti chiari rispetto alla liberazione delle donne quando affermava che: “La contrapposizione tra i sessi rappresenta la contrapposizione più importante del secolo XXI. Senza la lotta contro l’ideologia e la morale patriarcale non potremo raggiungere una vita libera, né costruire una società davvero democratica e quindi realizzare il socialismo. Così come i popoli hanno diritto all’autodeterminazione, anche le donne devono avere il diritto a decidere il loro destino. E’ una questione che non possiamo lasciare da parte o rinviare nel tempo. Al contrario, nella formazione della nuova civilizzazione, la libertà della donna è fondamentale per la realizzazione dell’uguaglianza.”

E’ per questo che, a partire dalla nascita del PKK, e durante gli ultimi trent’anni, le donne kurde hanno costruito la loro autonomia all’interno delle organizzazioni politiche, sociali e militari in un ambiente teoricamente favorevole. Bisogna dire “teoricamente” perché come sottolineava recentemente una delle due Comandanti delle YPG/YPJ a Kobanê, Meryem Kobanê, “l’atteggiamento iniziale degli uomini è stato di mancanza di fiducia nelle donne. Alcuni hanno manifestato preoccupazioni del tipo: ‘come possono le donne mantenere una posizione e combattere?’”

Meryem aggiungeva che “le donne non stanno combattendo solo contro lo Stato Islamico ma anche contro la mentalità del ‘macho dominante’ presente tra noi e hanno smontato tabù. La resistenza a Kobanê è diretta da donne che mentre combattono l’ISIS distruggono valori machisti e favoriscono un atteggiamento libertario nei confronti delle donne che così potranno occupare un posto nella nuova società”.

Le parole di Meryem Kobanê, dette con il fucile in mano dalla  prima linea del fronte, ci ricordano che, al di là delle immagini e le parole, a Rojava o nelle montagne del Kurdistan, nelle fila del PKK come in quelle delle YPG/YPJ (in Siria), o in quelle del PJAK (in Iran), le donne continuano a lottare su due fronti: contro la repressione politica, sociale e culturale che nega il popolo kurdo e contro la mentalità machista che ancora persiste all’interno e all’esterno del loro ambiente naturale.

Per comprendere a pieno la lotta delle donne kurde bisogna obbligatoriamente porre nomi e storie di queste donne in carne d’ossa, come possono essere quelle di Sakine Cansiz, 54 anni, fondatrice del PKK, Fidan Dogan, 32 anni, e Leyla Soylemez di 24 anni. Tre donne kurde di tre generazioni diverse unite da una stessa causa, la libertà del loro popolo. Tre donne uccise nel cuore di Parigi, il 9 gennaio 2013, giustiziate per ordine dei servizi segreti turchi.

Ricordiamo anche Kader Ortakaya, 28 anni, assassinata dall’esercito turco il 6 novembre 2014 mentre partecipava ad una catena umana organizzata lungo la frontiera Suruc-Kobanê in difesa della città di Kobanê già sotto assedio. E possiamo ricordare Leyla Zana, la prima donna kurda eletta al parlamento turco nel 1990 che ha passato 10 anni in carcere per cercare di portare, in lingua kurda, prole di pace e fratellanza tra i popoli della Turchia e che, ironicamente, è tornata a difendere la causa del suo popolo nello stesso parlamento dal quale l’avevano espulsa vent’anni fa.

 

Non sono molto diversi i racconti che vengono dal Kurdistan iraniano, Rojhelat, dove le donne hanno sempre giocato un ruolo importante, pagando in molti casi con la vita e grande sofferenza l’impegno per la libertà della loro gente. Si stima che metà dei guerriglieri del PJAK sono donne e la sua co-presidenta è una donna, Evîndar Rênas.

Il loro protagonismo si riflette nei volti e nei nomi di tante giovani come la guerrigliera del PJAK Sirin Elemhuli, giustiziata dal regime di Teheran nel 2010: la sua vita ha ispirato un romanzo pubblicato qualche tempo fa: Pepûleya Azadiyê (Farfalla di Libertà), scritto da Ehmedê Bilokiyê (prigioniero politico del PKK).

Zeynab Jalalian ha 34 anni ed è stata condannata all’ergastolo in Iran. In una lettera dal carcere qualche tempo fa scriveva: “La tortura continua nel carcere. Mi hanno sbattuto così tanto la testa contro il muro che l’emicrania ormai mi fa impazzire e ho perso la vista da un occhio, mentre l’altro è molto debole”.

Le donne del Kurdistan, da oltre trent’anni lottano e rivestono un ruolo importante a tutti i livelli della partecipazione politica. La loro vita e la loro storia riempie pagine di storia, spesso sconosciute in occidente.

Per questo le giovani che hanno difeso Kobanê contro le bandiere nere dell’ISIS che vorrebbe nuovamente sottometterle, sono le continuatrici di una tradizione antica: lottare non solo per la libertà del loro popolo ma anche per quella delle donne, contro costumi, pregiudizi e pratiche che vengono progressivamente relegate all’oblio.

Non è un caso dunque che a Rojava, una delle prime decisioni prese dopo la liberazione dei tre cantoni, sia stata proprio l’istituzione di assemble delle donne alle quali hanno fatto seguito organizzazioni sociali, politiche e militari femminili.

Guardare oltre le immagini in loop delle militanti kurde delle YPJ, andare oltre gli “ipocriti sgomenti” di fronte alla loro determinazione e partecipazione presuppone di fatto cercare di conoscere e capire le loro lotte e le loro “madri” in questo lungo cammino per la loro liberazione. Un percorso che hanno fatto le donne stesse e che mina proprio i falsi miti e i pregiudizi che si promuovono da Occidente.

Immagini deformate di una realtà che servono da argomento per giustificare guerre e costanti interventi nella zona del Medio Oriente, dove i “salvatori” dicono di difendere valori come la democrazia, i diritti umani o la liberazione della donna, quando invece promuovono nuove “crociate” che adesso si chiamano “guerre umanitarie”, uno sfortunato concetto che anche una buona parte della sinistra tradizionale ha purtroppo accettato acriticamente.

Le donne kurde non sono dunque  “super-eroine” di un videogioco, non hanno bisogno di nessuno che vada a “liberarle” e nemmeno di qualcuno che “installi” nei loro territori democrazie d’importazione: queste donne si occupano loro stesse dei loro problemi, da molti anni.

Quello di cui hanno bisogno è il sostegno morale, politico e umano perché la loro causa è anche quella del loro popolo. E, se riusciremo a liberarci dei pregiudizi e delle immagini pre-confezionate che invadono la nostra mente, ci renderemo conto che la loro causa è anche la nostra.

 *****

DONNE E RICOSTRUZIONE

 La Confederazione delle associazioni di donne di Rojava, Kongra Star, organizza diverse attività e lavori con le donne della città in ricostruzione.

Le donne dicono di aver bisogno con urgenza di una casa per accogliere le donne vittima di violenza domestica, una questione molto delicata di cui si occupa l’associazione SARA.

Kongra Star ha oggi una nuova sede in cui funzionano un archivio, un centro di aiuto, un uffcio stampa e una sala per conferenze e incontri.

Si tratta di uno spazio pubblico nel centro della città che si chiama Parco delle Donne ed è gestito dalle stesse donne.

In questo spazio c’è già un ristorante, gestito in cooperativa, dove si cucina e si vende cibo alla popolazione.

La Confederazione delle donne è anche riuscita a costruire un centro di taglio e cucito, anche quetso gestito da una cooperativa. Ci sono ancora molte difficoltà legate al reperimento dei materiali necessari, ma il centro funziona.

Kongra Star ha chiesto al Comitato per la Ricostruzione di Kobanê sostegno per mettere in piedi un’Accademia di formazione specifica per le donne.

Nel frattempo la Casa delle Donne  di Kobanê, un edificio di tre piani, dovrebbe funzionare anche come centro di formazione e promozione di progetti di economia alternativa.

Questo progetto di Casa delle Donne è stato finanziato dalla Provincia di Bolzano, la chiesa valdese e il comune basco di Durango.

 

QUI L’INTERO NUMERO DEL MAGAZINE GLOBAL RIGHTS #5 2017, SFOGLIABILE O SCARICABILE, IN ITALIANO, INGLESE, SPAGNOLO



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