«Riforma delle camerette». 5 Stelle esultano, ma è un taglio alla democrazia
Di Maio: poltrone in miniatura a chi resta fuori. Fdi fa da voto di scorta alla maggioranza
A mezza mattina Luigi Di Maio esce da Palazzo Madama con codazzo da grandi eventi. Il senato ha votato la «riforma delle camerette», quella che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. È il penultimo voto parlamentare, il prossimo sarà in autunno alla camera. Poi, visto che i numeri restano al di sotto della soglia dei due terzi, ci sarà il referendum confermativo, sempreché qualcuno lo chieda: un quinto dei parlamentari o 500mila cittadini. Ma il vicepremier oggi ne ha abbastanza per esultare. Dopo i giorni della polvere, per i 5 stelle è quasi un rito liberatorio: per una volta possono tornare agli slogan della prima ora, dimentichi di essere ridotti a succubi dell’alleato Salvini. Davanti alle telecamere sfodera un sorriso che non gli riusciva da tempo: grazie ai 5 stelle avremo «un parlamento in cui finalmente dalla prossima legislatura un po’ di gente che sta qui dentro da 7 o 8 legislature dovrà trovarsi un lavoro», poi lo sberleffo, «Gli manderemo una poltrona in miniatura per ricordare la votazione di oggi». Lo dice, ma sa che buona parte delle miniature può andare all’indirizzo dei suoi rimasti a piedi.
MA IL PIATTO FORTE, da sempre, sono i soldi: «In 5 anni risparmieremo 500 milioni di euro, 100 milioni di euro l’anno. 300mila al giorno che torneranno nelle tasche degli italiani». Per un taglio equivalente, all’epoca della riforma Renzi-Boschi gli uffici avevano calcolato somme assai più contenute. Ma all’epoca all’opposizione c’erano loro. Oggi gli argini della retorica anticasta sono sfondati, e sugli argomenti del Pd pesa il precedente.
ANCHE IL RESTO È DEMAGOGIA a buon mercato. Il combinato disposto di riforma e legge elettorale (il Rosatellum targato Pd) non ha molto a che vedere con l’allargamento della democrazia: renderà proibitivo l’ingresso in parlamento delle forze piccole, produrrà disparità di rappresentanza fra regioni e allargherà i collegi a dismisura. Fino al ridicolo degli eletti dall’estero: dovranno cercare preferenze contemporaneamente in Nord America, Asia e Oceania. Ma anche per la Lega è un «risultato storico», proclama Roberto Calderoli, indimenticabile padre del «Porcellum», la legge fabbrica dei nominati.
IN AULA IL VOTO sulle modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Carta si consuma fra le scintille, complice anche l’avvio dei lavori: uno scontro ruvido fra il Pd che chiede a Salvini di riferire sull’Affaire Rubli e la presidente Casellati che definisce «pettegolezzi» gli articoli di stampa sui rapporti fra Lega e Russia unita. Alla fine i sì sono 180, i no 50. Fratelli d’Italia si autoproclama stampella del governo giallobruno. Giorgia Meloni prova a monetizzare la faticaccia di aver votato una riforma sempre criticata perché monca: «La maggioranza da sola non aveva i numeri: servivano 161 voti, ne ha espressi solo 159», «Ora chiediamo al M5S e alla Lega di dimostrare il nostro stesso buon senso e sostenere le proposte che Fdi ha formulato sul piano costituzionale: l’elezione diretta del presidente della Repubblica».
Ma le cose non stanno così. Dei 5 stelle hanno votato 104 senatori su 106, della Lega 55 su 58, ma vanno aggiunti i tre dell’Svp e uno del Maie. Fa 163, quindi un soffio più dell’indispensabile. Sul resto è Salvini a chiudere: «Prima vengono la riforma della giustizia e il fisco».
LE OPPOSIZIONI PROVANO a mettere un freno al profluvio di demagogia, ma oggi sembra una missione impossibile. Ci prova Loredana De Petris, componente Leu del gruppo misto: «Il problema non è quello dei costi, è ovvio che la democrazia abbia dei costi», «L’obiettivo è rendere ancora più debole il potere legislativo a tutto vantaggio di quello esecutivo. Non era certo ciò che avevano in mente i Costituenti». Per il Pd parla il tesoriere Luigi Zanda, già bersaglio dei 5 stelle per una proposta di aumento degli indennizzi. Sceglie con cura le parole sbagliate, a proposito del taglio dei costi parla di «argomenti politicamente volgari», ma del precedente Pd abbiamo già detto. La riduzione dei parlamentari sarebbe condivisibile, cerca di ragionare, «ma solo come complemento di riforme più ampie», «Oggi è palese che al governo e alla maggioranza la riduzione del numero dei parlamentari non serve per rianimare la democrazia e rafforzare il parlamento, ma è una scorciatoia per indebolirli». Forza Italia, dopo aver detto sì due volte ci ripensa. La linea è il non voto, annuncia Malan. Ma i tabulati rivelano che Maria Rosaria Rossi, ex tesoriera del partito, e Gaetano Quagliariello hanno votato sì. Gli uomini del presidente ligure Toti sono in dissenso ma in senato non sono rappresentati. Degli ex M5s Gregorio De Falco e Paola Nugnes votano contro, Elena Fattori non partecipa.
* Fonte:Daniela Preziosi, IL MANIFESTO
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