Ahmed, Abdel e Solafa: i tanti casi non isolati della repressione in Egitto

Ahmed, Abdel e Solafa: i tanti casi non isolati della repressione in Egitto

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Il regime. Il pervasivo metodo al-Sisi: il carcere per il dissenso palese, l’intenzione del dissenso o la semplice presunzione

Ahmed Santawy, Abdel Rahman Tarek e Solafa Magdy. Uno studente, un blogger e una giornalista che in comune hanno due cose: la prigionia politica e l’essere egiziani al tempo del regime di al-Sisi che vede in figure come queste un rischio alla sicurezza del governo.

A decidere chi è una minaccia sono i servizi segreti, organo storicamente capillare in Egitto, che tutto vede e tutto sa (o crede di sapere) e punisce il dissenso palese, l’intenzione del dissenso o semplicemente la sua presunzione.

AHMED SANTAWY studia a Vienna, alla Central European University. È tornato a casa dalla famiglia il 23 gennaio per una vacanza, a Dahab, in Sinai. Intanto l’appartamento dei genitori a New Cairo veniva perquisito e i video delle telecamere di sorveglianza confiscati.

Gli è stato detto di presentarsi in una stazione di polizia della nuova capitale. Ci è andato il 30 gennaio, poi di nuovo il primo febbraio. Ed è sparito. Solo ieri sono giunte notizie: è accusato di diffusione di notizie false online e appartenenza a gruppo terroristico; la Procura per la Sicurezza di Stato ha ordinato la detenzione cautelare per 15 giorni.

Non si conosce il luogo della prigionia dello studente di sociologia, che svolge ricerche sulla condizione delle donne in Egitto: all’aeroporto la National Security, dice il fratello, gli aveva chiesto quale fosse il tema dei suoi studi. La famiglia ha chiesto alla procura di rilasciarlo, stessa richiesta mossa al ministero degli interni dalla Association for the Freedom of Thought and Expression.

Un destino identico a quello di Patrick Zaki, per cui domani l’Italia si mobilita a un anno dal suo arresto: in diversi comuni italiani, a partire da Bologna, saranno affissi i 10 poster, provenienti da tutto il mondo, vincitori del concorso «Free Patrick Zaki, prisoner of coscience», a lui dedicato da Amnesty Italia, il festival Conversazioni sul Futuro, Articolo21, l’Università e il Comune di Bologna.

Nel maggio 2018 lo stesso accadde a Walid al-Shobaky, studente egiziano a Washington, arrestato e poi accusato di diffusione di notizie false e appartenenza a gruppo terroristico. È a piede libero da dicembre 2018 ma le accuse non ancora sono cadute.

ABDEL RAHMAN TAREK, meglio noto come Mocha, è un blogger. Ri-arrestato nel 2019 per la seconda volta (nel 2013 aveva partecipato a un presidio contro l’uso di processi militari a civili, condannato a tre anni), aveva iniziato lo sciopero della fame in carcere, protesta alla detenzione cautelare (la stessa di Zaki).

Ha rifiutato il cibo per 53 giorni, mercoledì scorso è stato costretto a mangiare per il serio peggioramento delle sue condizioni e per le pressioni delle autorità carcerarie (il divieto a incontrare la famiglia e il trasferimento nel famigerato carcere di Tora).

SOLAFA MAGDY, giornalista arrestata nel novembre 2019 insieme al marito, in attesa di processo, anche lei solite accuse (diffusione di notizie false e appartenenza a organizzazione terroristica).

Domenica scorsa, tramite i suoi legali, ha ufficialmente denunciato i poliziotti della prigione di Qanater di abusi sessuali e vessazioni: costretta a spogliarsi di fronte alle guardie; sottoposta con la forza a un esame pelvico; incappucciata e minacciata di violenza.

La prima reazione è giunta 24 ore dopo dal ministero degli interni che ha «categoricamente negato» i fatti e l’ha accusata di essere una pedina dei Fratelli musulmani «al fine di incitare l’opinione pubblica» alla protesta.

Tre storie che sono specchio di quelle di 60mila prigionieri politici. Il metodo al-Sisi non è mai stato un caso isolato.

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto



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