Torino antifascista. Picchiata dalla polizia insieme ai miei studenti
Sembrava tutto finito, il Fuan si era allontanato, gli studenti avevano intonato “Bella ciao” e stavamo per tornare al nostro lavoro, quando improvvisamente la carica, gli scudi e i manganelli addosso
Poco più di un mese fa la polizia in assetto antisommossa saliva le scale del Campus Luigi Einaudi, università di Torino. Un’immagine forte, inquietante, per chi, come chi scrive, insegna, studia, lavora in università.
Seguivano cariche. Tutto “a protezione” di un’iniziativa del Fuan con la presenza dell’assessore regionale di Fratelli d’Italia. Il diritto di contestazione impedito, studenti bloccati nelle aule, lezioni interrotte.
La risposta è stata una assemblea antifascista, viva e intensa, partecipatissima da studenti e anche docenti, mentre, come si suol dire, assordante era stato il silenzio del rappresentante della comunità accademica, il rettore.
Martedì scorso, la scena si è ripetuta, questa volta appena fuori dai cancelli dell’università. Mentre gli agenti della Digos riprendevano dai locali dell’università (domanda: chi li ha autorizzati?), null’altro che inizialmente il normale passaggio di persone in un campus universitario, un ingente schieramento di polizia bloccava la strada. A quanto abbiamo appreso, erano stati chiamati dal Fuan che intendeva distribuire volantini, e prontamente accorsi; chiamati a priori, prima di qualsivoglia necessità di intervento a tutela dell’ordine pubblico, ovvero della sicurezza di tutti – e sottolineo tutti. Una sorta di scorta personale? Solo una considerazione, particolarmente dolorosa nel giorno dei funerali di Giulia Cecchettin: la stessa solerzia non c’è quando le donne chiamano temendo una violenza.
Abbiamo provato ad intervenire identificandoci come docenti e interloquendo con la dirigente di piazza, per poi frapporci fisicamente tra la polizia e gli studenti, con l’intento, forse un po’ ingenuo, ma doveroso verso gli studenti, di contribuire a garantire l’esercizio del diritto di contestazione senza violenza, senza interventi violenti della polizia, come da poco avvenuto. Sembrava tutto finito, il Fuan si era allontanato, gli studenti avevano intonato “Bella ciao” e stavamo per tornare al nostro lavoro, quando improvvisamente la carica, gli scudi e i manganelli addosso. La storia mia e della collega, Alice Cauduro, finisce al pronto soccorso, con sette giorni di prognosi, come quella di una studentessa con il braccio rotto; le cariche sono proseguite, altri studenti sono stati picchiati, uno studente è stato fermato e rilasciato all’alba.
Sporgeremo denuncia per l’aggressione violenta e gratuita subita da parte delle forze dell’ordine e chiediamo, sin d’ora, al rettore di intervenire presso la questura.
I due fatti, non isolati, ma scene ripetute, a Torino, come altrove, indicano una chiusura degli spazi di protesta e una repressione del dissenso che si inasprisce di decreto sicurezza in decreto sicurezza, e si è aggravata con un governo che, dal primo decreto sui rave, ha adottato un numero impressionante di decreti che criminalizzano la solidarietà, puniscono dissenso, migranti e disagio sociale; per tacere di un clima bellico, che delegittima il “nemico” e nega possibilità di espressione al pluralismo, al conflitto, alla critica, al ragionamento complesso.
Dagli attivisti del clima ai lavoratori della logistica agli interventi contro le occupazioni abitative, tra nuovi reati e abuso degli strumenti penali esistenti, la morsa si stringe.
L’espressione del dissenso è elemento costitutivo e imprescindibile della democrazia, come lo è l’esercizio del diritto di sciopero negato dalle precettazioni.
L’antifascismo è il fondamento della Repubblica e attraversa tutta la Costituzione: gli studenti in presidio lo stavano difendendo. L’università deve essere un luogo – antifascista – di costruzione di sapere critico, aperto alla partecipazione e al dissenso.
È un mondo a rovescio, non permettiamo che diventi la norma.
* Fonte/autore: Alessandra Algostino, il manifesto
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