le Profezie su milano

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Ed è così che dall’immaginario profondo emergono i babau più contrastanti e più surreali. C’è la Milano islamica delle mille moschee, dove il centrosinistra rovinerebbe il duro lavoro di Carlo Martello a Poitiers. Ma abbiamo anche la Zingaropoli dove il rame sparisce in quattro e quattr’otto e tutti sono derubati, compresi forse gli esponenti del centrosinistra, che però non ci fanno tanto caso dal momento che sono abituati anche loro a rubare furgoni. C’è la Milano violenta, dove tutti si permettono di tutto sapendo che i poliziotti della gauche caviar li lasceranno fare quello che gli pare e piace. E, nel calore della lotta politica, emerge persino l’immagine di Napoli, questa volta, consegnata ai “femminielli” (così nell’espressione dell’Onorevole Giovanardi), forse contrapposta idealmente a una Arcore risolutamente eterosessuale. Costerebbe poco aggiungere alla lista la minaccia di una Milano nera o ebrea, o attaccata dagli extraterrestri e ridotta nelle condizioni della Los Angeles di Blade Runner.
L’alogica (è il caso di dirlo) della campagna è di scatenare un pandemonio, ossia di evocare tutti i demoni che possono dissuadere dal cambiamento. Da una parte ti minacciano l’avvento dell’Anticristo, dall’altra ti promettono che, se non cambi, tutto ti sarà  perdonato e, in particolare, ti verranno revocate le multe e avrai due ministeri. E nel tentativo, come si dice, di parlare alle viscere dell’elettorato, questa campagna sortisce l’effetto indesiderato di mostrare le viscere del centrodestra. Perché in effetti, con questa evocazione delle potenze del male alla fine la Moratti viene a fare grosso modo la parte della Regina della Notte e Pisapia quella di Sarastro (“La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore, Morte e disperazione m’infiamman tutt’intorno! Se Sarastro non patisce le pene della morte”). E dunque, alla fine, tutto questo minacciare risulta profondamente controproducente, se non altro perché quello che si prospetta come ideale è esattamente l’inverso della Milano tollerante che abbiamo conosciuto in epoche in cui altre città  recavano ancora tracce di intolleranza e di razzismo. Perché se ci si prova a immaginare quale sarebbe la Milano che vien fuori, qualora si dovesse realizzare il modello prospettato dalla campagna di centrodestra, sarebbe una specie di villaggio monorazziale e monoculturale, ossia esattamente il contrario della città  cosmopolita che ha sempre aspirato ad essere. L’unico tocco di internazionalità  verrebbe a questo punto dalla ‘ndrangheta, sulla cui reale presenza, che io sappia, nessun comizio di centrodestra ha insistito.
Su questo cammino, come sempre, si è distinto il Premier, che venerdì scorso, durante le sue fluviali esternazioni, ha operato una trasvalutazione di tutti i valori e si è lasciato scappare anche un “Milano non diventerà  la Stalingrado d’Italia”. Dove sembrerebbe che “Stalingrado” diventi il marchio dell’infamia, con quello “Stalin” nel nome. Dimenticando la circostanza che proprio il fatto che nel nome della città  ci fosse Stalin determinò Hitler a volerla occupare a tutti i costi, facendone la città  martire della resistenza antinazista, e la città  dove è iniziato il crepuscolo del Terzo Reich. Il fatto che fortunatamente non scorra sangue, e che le due situazioni siano radicalmente diverse, visto che nel primo caso c’era una tragica guerra guerreggiata, e qui invece una iperbole mediatica, restituisce sicuramente la dimensione delle cose. Ma non cancella la mancanza di rispetto storico di chi evoca tanto a sproposito la parola “Stalingrado” e dei suoi morti per la libertà . Riconosciamo qui il paradosso che sta al centro di tutta questa campagna (ma già  di tutti gli ultimi anni del centrodestra), ossia di un polo di estremisti che cerca di catturare il voto dei moderati, e finisce per lasciarli perplessi, costernati, e spaventati, ma dal centrodestra.


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