Cina, la rivolta degli operai nella capitale dei blue jeans

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PECHINO – Milioni di cinesi la sera intonano vecchie canzoni rivoluzionarie nei parchi delle metropoli e ieri la nazione si è fermata per il debutto del kolossal sulla fondazione del partito comunista, glorificazione cinematografica estrema del maoismo. A novant’anni dalla nascita del più longevo autoritarismo della storia moderna, la Cina non riesce però a nascondere proteste e rivolte di massa che la scuotono come mai negli ultimi sessant’anni. Le insurrezioni degli ultimi giorni, a differenza di quella di piazza Tiananmen nel 1989, non scoppiano per ragioni politiche, o per sete di libertà  e democrazia. Il popolo cinese, per la prima volta, occupa ora le piazze e si scontra con la polizia per chiedere maggiori diritti sul lavoro, salari dignitosi, un’occupazione stabile, il rispetto dei proprietari delle aziende, la tutela di case e terreni, accoglienza e servizi sociali nelle metropoli.
Pechino assiste all’esplosione di sommosse in serie con un’inquietudine senza precedenti, ma le minacce di «tolleranza zero» e di repressioni violente, tese a scongiurare «il contagio del virus democratico partito dall’Africa mediterranea», non riescono a contenere la nuova rabbia di migranti, operai e contadini. Simbolo di questa Cina inquieta è il villaggio di Xintang, lungo il delta del Fiume delle Perle, epicentro mondiale delle industrie tessili, nel Guangdong. Centomila immigrati del Sichuan producono qui ogni anno 200 milioni di paia di jeans per 60 tra i più famosi marchi del pianeta. I lavoratori guadagnano da 45 a 90 euro al mese per turni quotidiani da 18 ore e chi protesta viene massacrato di botte. Sabato scorso un’ambulante ventenne, incinta, è stata pestata a sangue fuori da un supermercato e l’ennesima violenza degli agenti ha scatenato la rivolta popolare. Migliaia di persone hanno bruciato auto e distrutto negozi, dando l’assalto al quartiere dove si concentrano i nuovi milionari. Le autorità  sono state costrette a proclamare il coprifuoco e a chiedere l’intervento dell’esercito.
Dopo cinque giorni la tensione resta altissima, le fabbriche sono chiuse, mentre scioperi e saccheggi si diffondono in tutto il Paese. A Lichuan, nella regione dell’Hubei, duemila insorti hanno preso d’assalto il municipio dopo che un funzionario schierato contro gli espropri forzati della terra è stato ucciso a calci. Agenti in tenuta antisommossa pattugliano la città  di Zengcheng e i principali distretti produttivi della costa e del Sud, dove centinaia di scioperi stanno paralizzando le esportazioni. Nonostante la censura, le segnalazioni di rivolte si moltiplicano su Internet. A fine maggio una folla inferocita ha occupato le strade della Mongolia Interna, tre esplosioni misteriose hanno distrutto i palazzi amministrativi dello Shanxi, mentre Pechino, per due mesi ha deciso di tornare a chiudere il Tibet agli stranieri. A metà  anni ’90 le proteste di massa in Cina erano circa 9 mila all’anno. Sono schizzate a 180 mila nel 2010 e quest’anno la facoltà  di Sociologia dell’università  Tsinghua prevede che supereranno le 200 mila.
I leader comunisti, più del numero, temono però la loro qualità . Contadini, migranti e operai, sembrano non sopportare più la corruzione dei funzionari, la prepotenza delle forze dell’ordine, lo scandalo di salari da fame. Può essere l’annuncio della crisi del modello che per trent’anni, grazie allo sfruttamento, ha alimentato l’inarrestabile crescita della seconda potenza economica del mondo. Per questo, con Pechino, anche l’Occidente Asia-dipendente inizia a preoccuparsi.

 


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