Il boia colpisce ancora Troy Davis non si salva

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 L’uomo nero è stato giustiziato. Dopo vent’anni passati nel braccio della morte, Troy Davis ha smesso di vivere ieri alle 19, l’una di notte in Italia, nella prigione di Jackson, per mezzo di un’iniezione letale. Poteva essere il 130esimo tra i detenuti ingiutamente condannati a morte negli Usa dal 1973 ad oggi e successivamente rilasciati, ma nonostante una campagna planetaria in suo sostegno, con in testa Amnesty International, non ha avuto la fortuna di entrare nella lista. L’ultimo a scamparla era stato l’afroamericano Anthony Graves, liberato dopo 18 anni passati nel famigerato braccio di Livingston, in Texas, salvato non certo dai suoi legali d’ufficio, cronicamente impotenti contro stati forcaioli e corti razziste, ma dall’impegno profuso dalla professoressa Nicole Casarez, dell’Università  St. Thomas e dai suoi studenti di giornalismo che presero a cuore la vicenda.

Condannato a morte nel 1991, Troy Davis ha sempre proclamato la propria innocenza, ma la sua richiesta di grazia è stata respinta dal comitato della Georgia. Accusato di avere ucciso nel 1989 l’agente di polizia Mark MacPhail a Savannah, Davis ha scontato la solita via crucis riservata a tutti gli imputati di questo crimine, soprattutto quelli poveri in canna e che appartengono a minoranze etniche discriminate.
Nonostante ben 9 testimoni abbiano ritrattato le accuse, nessuna prova fisica sia collegata direttamente all’omicidio e l’arma del delitto non sia mai stata trovata, Davis non ce l’ha fatta ed è rimasto vittima dell’ennesimo omicidio legalizzato. Per due decenni seppellito in un minuscolo buco di cemento e acciaio, è comunque riuscito a far sentire la sua voce e le sue ragioni, ma a nulla sono valsi appelli eminenti, compreso quello di Papa Ratzinger. E chi sperava in un presidente nero per vedere meno neri sulla forca, ha dovuto ricredersi: nessun politico si azzarderà  mai a pronunciarsi contro l’istituzione capitale, a meno che non voglia andare verso un più che probabile fallimento della propria carriera.
La vicenda di Davis ha però fatto emergere un altro aspetto, quello del mondo abolizionista, sicuramente più disponibile a battaglie in difesa di possibili innocenti piuttosto che in sostegno di probabili colpevoli. Forse si dovrebbe partire proprio dal presupposto che nel braccio della morte ci sono soltanto colpevoli per capire che la «morte di stato» è di per sé un abominio inumano, che va combattuto sempre e comunque. “La battaglia per la giustizia non si fermerà  con me. Questa battaglia è per tutti i ‘Troy Davis’ prima di me e per tutti coloro che mi seguiranno”.


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