“Io, cronista minacciato dalla mafia del Nord”

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Un giorno come tanti, caffè, rassegna stampa e la solita corsa per chiudere il pezzo e guadagnarmi la giornata. Ma poi arriva una telefonata, ero fuori città . «Abbiamo deciso di tutelarti», il giorno dopo avevo già  la scorta assegnata. È diventata fissa pochi giorni fa. Stai tranquillo, mi hanno detto, fai quello che ti dicono e segui le nostre direttive. Cambia la quotidianità , nelle piccole cose di ogni giorno si avverte il cambiamento. Dalla spesa all’organizzazione del lavoro, programmare le interviste, pianificare la propria vita con minuziosa attenzione. Ma la voglia di andare avanti è più forte. Raccontare il potere delle mafie al Nord vuol dire raccontare il lato oscuro del Paese. Da anni collaboro con la Gazzetta di Modena, da anni mi occupo di mafie al Nord. Delle cosche d’Emilia. Quelle stesse cosche che negli anni in cui emigravo verso Modena raccoglievano quanto seminato decenni prima. Un raccolto fatto di patrimoni enormi, un fiume di denaro accumulato sulla pelle degli onesti. Erano gli anni ’90 quando ci trasferimmo in Emilia, qui ho iniziato a scrivere. A raccontare di come i clan si muovono e impongono servizi alle imprese, obbligano commercianti e imprenditori a pagare il pizzo. È quanto racconto nel libro appena pubblicato da Round Robin editrice dal titolo Gotica. ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea. Un libro-inchiesta in cui raccolgo la mia attività  di cronista di giudiziaria e di inchieste giornalistiche realizzata anche con il mensile Narcomafie e Linkiesta.it.
Era il 1989 quando mio padre venne ucciso a Locri mentre tornava a casa dal lavoro. Era un funzionario di banca, a sparargli mani ignote, ma armate dalla ‘ndrangheta. Il suo omicidio è rimasto irrisolto, come tanti in Calabria. Io avevo sette anni e lo aspettavo come tutte le sere. Da quel 23 ottobre non tornò più.
Da quando lavoro a Modena ho scoperto che clan dei casalesi, ‘ndrangheta e Cosa nostra, operano in Emilia Romagna come se fossero a casa loro. Nell’ultimo anno le indagini che hanno riguardato il territorio emiliano-romagnolo sono state numerose. Arresti, sequestri, processi. Da Rimini a Piacenza le cosche corrono rapide di cantiere in cantiere e consolidano il loro potere. Autotrasporto, edilizia, gioco d’azzardo legale e illegale, facchinaggio. Parlare di narcotraffico e di pizzo è parlare, sostanzialmente, di una questione di ordine pubblico. Ricostruire i percorsi del fiume sotterraneo di denaro mafioso vuol dire toccare un nervo scoperto, significa iniziare a demolire la facciata di legalità  creata dai boss in anni di lavorio discreto, sottotraccia, con la complicità  di insospettabili professionisti come avvocati, commercialisti, notai, consulenti: i cosiddetti colletti bianchi. 
Rapporti che rendono i boss invisibili e socialmente accettati. E succede così che l’apertura di un negozio etnico suscita più allarme sociale rispetto alla colonizzazione dei territori del Nord da parte delle cosche. Che in questi territori, oltre la linea Gotica, si sentono forti, e protette. Talmente protette che vorrebbero con le loro intimidazioni bloccare i giornalisti che fanno inchieste sui loro affari. Giovani giornalisti, precari ma con una passione immensa. Che rischiano e amano il proprio lavoro, che per pochi euro, al Sud come al Nord, mettono in gioco la propria vita per far conoscere a tutti il grado raggiunto da ‘ndrangheta, mafia e camorra. Giovani cronisti che vivono una doppia vulnerabilità , fisica ed economica. Per questo uno degli attestati di solidarietà  che mi ha commosso maggiormente è la campagna lanciata dall’associazione daSud e da Stop’ndrangheta.it, “Io mi chiamo Giovanni Tizian”. Un appello per tutelare me, ma anche tutti i giovani giornalisti precari di questo strano Paese.


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