Il lavoratore futuro è interinale

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Dopo le norme sulla sicurezza, un’altra frustata al potere contrattuale dei lavoratori dipendentiOgni giorno ha la sua croce. Per valutare esattamente quel che il governo va facendo servirebbero però molte croci e altrettanti articoli al giorno. Il ministro Elsa Fornero doveva incontrare oggi pomeriggio le parti sociali per aggiornare il «confronto» sulla riforma del mercato del lavoro. Ma intanto un secondo robusto pezzo della materia teoricamente oggetto di discussione è già  stato tolto dal tavolo, con decisione unilaterale del governo. A dimostrazione di cosa significa quella frase molte volte ripetuta anche da Mario Monti: «a marzo il governo presenterà  al Parlamento la riforma del mercato del lavoro, con o senza l’accordo con i sindacati».
Il modus operandi è ormai noto, come si è visto con le «linee di indirizzo» che vanno a modificare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Con un altro decreto – dedicato alla semplificazione fiscale, ecc si – aggredisce il lavoro interinale e lo staff leasing. Ossia due degli oltre 40 contratti precari che da un quindicennio flagellano i lavoratori – giovani e no – che cercano un impiego. La promessa del governo era di «sfoltire» radicalmente questa giungla per «favorire» l’accesso delle giovani generazioni utilizzando quella che viene retoricamente chiamata «flessibilità  buona». In realtà , nella sezione dedicata al lavoro interinale si dice tutt’altro. Intanto che queste due forme vengono confermate ed estese, ufficializzando la precarietà  a tempo indeterminato. 
Come? Viene abolita la necessità  per le aziende – prevista dalla legge attuale – di indicare le «causali» che spingono a ricorrere a questa forma contrattuale. Ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che spesso vengono descritte in modo generico e danno vita a contenziosi legali; e qualche volta – orrore! – le aziende si sono ritrovate a dover assumere a tempo indeterminato il lavoratore «somministrato». Ora avranno la garanzia di poterselo togliere dai piedi senza problemi a fine «missione».
A parziale compensazione, il decreto stabilisce che questo lavoratore «affittato» debba ricevere – a parità  di mansione – salario e «diritti» uguali a quelli dei dipendenti diretti dell’impresa presso cui presta temporaneamente servizio. Un’ugualianza relativa, ovviamente: ferie, straordinari, pause, riposi, turni e persino maternità . Ma non certo quelli di dignità  e libertà  (sindacale, in primis) garantiti dall’art. 18. 
Nei fatti, le imprese vengono «liberate» da molti vincoli, al punto che si può benissimo immaginare – al limite – un’azienda senza personale alle proprie dipendenze, ma che si limita ad affittare le maestranze che le servono e finché le servono. Una funzione che nel recente passato, o nel presente di molte zone depresse del paese, veniva o viene svolta in maniera efficientissima dai «caporali» e dai mercanti di braccia. Certo, a questi fa difetto la «trasparenza» e soprattutto il pagamento delle tasse sugli utili. Ma il principio economico di fondo – la mediazione di forza lavoro, o l’interposizione tra domanda e offerta – è identico.
Questo ha un effetto valanga sulla vigenza dei contratti nazionali di lavoro, complice anche quell’art. 8 della «manovra d’agosto» piantato nel cuore delle relazioni industriali: «i contratti aziendali possono andare in deroga rispetto a quelli nazionali ed anche alle leggi». 
Dal punto di vista dei rapporti con il sindacato, si tratta di una scorrettezza difficilmente digeribile. Ma soltanto il Direttivo nazionale della Cgil – tra le sigle ammesse al tavolo ministeriale – ha chiesto il ritiro immediato di questo decreto. Silenzio (assenso?) da parte di Cisl e Uil; oltre che, e ci mancherebbe, da Confindustria. In condizioni normali, ci si dovrebbe aspettare un rifiuto di proseguire il «confronto» finché questo decreto resta nell’agenda parlamentare. Forse anche per questo, il governo ha deciso all’ultimo minuto di prendere tempo e rinviare l’incontro fissato per oggi. La nota ufficiale di palazzo Chigi parla della «volontà  di raggiungere un accordo condiviso»; e quindi della necessità  di prendere «qualche giorno di tempo per individuare risorse da destinare a una vera e profonda riforma degli ammortizzatori sociali». Una insistenza che, nonostante le dichiarate riserve di Confindustria, sembra ancora più inquietante, a dispetto dalle parole usate.
L’intenzione del governo e la direzione di marcia appaiono infatti di evidenza solare: ridurre al minimo i temi da discutere davvero. Alla fine ne resterà  soltanto uno: l’art. 18. Possono, i milioni di lavoratori rappresentati dal sindacato, rassegnarsi a subire tutto?


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