Alle radici del totem dello «sviluppo»

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Alla radice del tutto, infatti, non c’è solo un tunnel, ma un’idea più ampia e generale di quello che viene chiamato “sviluppo”. Una parola che più che una linea guida, è diventata una sorta di totem, sacro e intoccabile. 
Il concetto di sviluppo affonda le sue radici nella filosofia di Aristotele e di Sant’Agostino, ma i suoi veri padri sono l’illuminismo e l’evoluzionismo sociale. Il primo con la sua fede incrollabile nell’uomo e nella sua capacità  di creare un progresso infinito, ha gettato solide basi sulle quali appoggiare i pilastri della credenza “sviluppistica”. La spinta verso la modernità  doveva per forza prevedere che le conoscenze dei contemporanei si sarebbero aggiunte a quelle dei loro predecessori, escludendo pertanto ogni eventualità  di declino. Tale era la fede dei Lumi nelle potenzialità  del genere umano, che si ipotizzava in tempi piuttosto brevi il raggiungimento dell’eguaglianza degli uomini, in quanto l’Occidente avrebbe esportato nei paesi più remoti quell’idea di democrazia e uguaglianza nata dalla Rivoluzione Francese. Si andava formulando in questo periodo una concezione dello sviluppo come un processo naturale, che prima o poi avrebbe coinvolto tutto e tutti. Sviluppo è diventato allora sinonimo di crescita, senza mai porre davvero dei limiti. Sviluppo pensato in chiave quantitativa e mai qualitativa.
Anche nel caso della Tav, i termini dello scontro sono qualitativi da una parte, quantitativi dall’altra, ma con un paradosso. Dalla parte Tav vengono addotte motivazioni di carattere quantitativo, sorrette da studi e dati, che possono essere discussi, ma sono comunque dati; dall’altra se si va a ben vedere, le motivazioni sono piuttosto qualitative e mai motivate con dati concreti. Anche le ultime parole di Monti vanno in quella direzione: «I benefici sono rilevanti… serve un aggancio fisico dell’Italia… ci evita di lasciare andare alla deriva la nostra Penisola».
Se proviamo a osservare la maggior parte delle definizioni del concetto di sviluppo, notiamo che sono generalmente basate sul modo in cui una o più persone si immaginano le condizioni ideali dell’esistenza umana. Se lo sviluppo è soltanto un termine comodo per riassumere l’insieme delle virtuose aspirazioni umane, si può concludere immediatamente che esso non esiste in alcun luogo e che non esisterà  probabilmente mai. 
Ecco allora che l’idea di sviluppo si manifesta per la società  occidentale non come ideologia o come scienza, ma come credenza. Credenza paragonabile ai miti delle popolazioni che noi chiamiamo “primitive”. Un’idea si discute, un mito no, pena l’intero crollo del sistema, della società  basata su un’idea di crescita. Non a caso, nonostante i molti fallimenti, nessuno mette in discussione il concetto di sviluppo, anzi ogni fallimento diventa l’occasione di una nuova dilazione. E come ogni fede, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra (G8, G20, Davos), che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore al di là  di ogni logica conclusione.
Se la problematica dello sviluppo è inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce il mito fondante, non è così per tutti. Presso molte società  non esiste neppure un termine linguistico che definisca tale concetto. Presso i bubi della Guinea Equatoriale per definire lo sviluppo si indica un termine, che significa allo stesso tempo crescere e morire, mentre in Rwanda lo stesso concetto viene espresso con il verbo marciare, spostarsi, senza che però venga indicata alcuna direzione prestabilita. 
In wolof l’equivalente di sviluppo è stato identificato dai membri di molti villaggi con «la voce del capo»; i camerunesi di lingua eton lo traducono, con inconscio sarcasmo, con «il sogno del bianco».

Docente di antropologia culturale all’Università  di Genova


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