A Montecitorio un «flash mob» contro il femmicidio

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Ieri a Montecitorio sono comparsi 55 cartelli che hanno ricordato i nomi e l’età  delle 55 donne uccise da compagni, fratelli, mariti, dall’inizio dell’anno in Italia, un «flash mob» per chiedere «una concreta azione di governo» contro il femmicidio. L’iniziativa, promossa dalla rete di collettivi e singoli di sinistra «Tilt», sottolinea che oltre all’indignazione che accomuna tutti e tutte come dimostrano le 20mila firme già  raccolte dall’appello «Mai più complici» (Zanardo-Lipperini-Snoq), è necessario un «potenziamento dei fondi destinati a questo settore». «Ai politici – ha detto Celeste Costantino, di Tilt e della presidenza nazionale di Sel – chiediamo di più, di non indignarsi semplicemente ad ogni femmicidio ma di dare risposte concrete. Il ministro Fornero, che ha anche la delega alle Pari opportunità  deve dare quel segnale che finora è mancato. Anche le scelte economiche devono essere pensate in funzione della donna». C’era anche Elettra Deiana, del direttivo di Sel: «È importante che all’interno di Tilt e oggi qui in piazza ci siano anche uomini: è necessario uno spostamento nella relazione tra i sessi». 
I dati della violenza sulle donne sono purtroppo noti: 127 donne uccise nel 2010, 137 nel 2011 e sono già  55 nel 2012. Un settore, quello della violenza di genere, che purtroppo non è mai in crisi. In Italia la rete delle giornaliste unite, libere e autonome (GiULIA), è la prime rete nazionale di giornaliste che lavora con una prospettiva di genere analizzando linguaggi e stereotipi con un osservatorio su come la stampa tratta «le donne» con una raccolta di testimonianze su come le donne lavorano nelle redazioni e del trattamento che ricevono in quanto giornaliste. Una ricerca quotidiana in cui si scopre come le donne siano, anche qui, due volte «a rischio» rispetto ai colleghi maschi. 
Oggi, giorno in cui le Nazioni Unite celebra la giornata internazionale della libertà  di stampa nel mondo, si presenta come nuova occasione per ricordare il triste elenco di «morti sul lavoro» – 108 giornalisti uccisi nel 2011 e 46 nei primi 4 mesi del 2012 – ma anche per ricordare Regina Martinez, la giornalista messicana del Proceso, trovata strangolata nella sua casa; e Anna Maria Marcella Yarce Viveros e Rocio Gonzalez Trapaga, ritrovate orribilmente torturate e uccise a settembre a Città  del Massico. Le giornaliste infatti, oltre a rischiare la vita, rischiano costantemente violenze e stupri. All’elenco delle reporter uccise per il loro lavoro di coraggiosa denuncia, come Anna Politkovskaya, Anastasia Baburova, Natalya Estemirova, Zakia Zaki, Marie Colvin, e le nostre Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, si aggiungono tutte le giornaliste vittime di stupri e di violenze per intimidazione o discriminate e abusate solo perché donne. Ricordiamo Caroline Sinz, la reporter di France 3, aggredita e violentata mesi fa al Cairo durante la rivolta egiziana; Lara Logan, reporter della Cbs, stuprata in piazza Tahrir da uomini egiziani che, dopo aver disperso la troupe, hanno accerchiato, aggredito, picchiato e stuprato la donna; o anche Mona El Tahawy del New York Times, che ha dichiarato di aver subito violenza da parte delle polizia dopo essere stata fermata per 12 ore nelle carceri del Cairo. 
Spesso le giornaliste vittime di aggressioni sessuali, rimangono in silenzio per la vergogna ma soprattutto per la paura di essere denigrate, trasferite o licenziate dal proprio giornale. Uno dei casi più eclatanti fu quello della colombiana Jineth Bedoya, che rivelò solo dopo 9 anni di essere stata stuprata mentre indagava sui gruppi paramilitari di estrema destra per il giornale El Espectador; o la giornalista svedese Jenny Nordberg, che nel 2007 in Pakistan fu stuprata nella folla, che raccontò di essere rimasta in silenzio per la paura di «perdere l’occasione di lavori futuri». C’è chi è costretta a vivere costantemente nella paura, come la giornalista e attivista per i diritti umani, Dina Meza, che continua a ricevere minacce di violenza sessuale in Honduras. 
Il Cpj (Committee to Protect Journalist) ha raccolto testimonianze di giornaliste vittime per il lavoro svolto in molti paesi di Medio Oriente, Asia Meridionale, Africa e America.


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