Ecco i sei «comandamenti» imposti a Roma

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BRUXELLES — Alla fine, ha detto di aver provato «un po’ di emozione» per quello che ha definito «un battesimo», cioè il suo primo vertice europeo. E ha parlato, Enrico Letta, di discussione «molto bella e forte» sui vari temi internazionali in campo. Ma è probabile che il primo ministro pensasse anche a un’altra carambola giocata tutta fra Italia e Unione Europea: alla trattativa, continuata anche in quei momenti e in quegli stessi palazzi di Bruxelles, sull’uscita di Roma dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo.
Mancano sei giorni alla decisione finale che verrà  comunicata il 29 maggio, e riguarderà  anche altri Paesi sotto procedura. I negoziati fervono fra ambasciatori, sherpa di ogni grado, consiglieri tecnici. Ronzano voci che descrivono l’Italia come già  «assolta», ma con pesanti ceppi ai piedi, cioè zavorrata da imposizioni severissime che in parte rifletterebbero la sostanziale diffidenza nei nostri confronti di Olli Rehn, il commissario europeo agli affari economici e monetari, finlandese innamorato dell’Italia ma forse un po’ meno di chi amministra le sue casse.
In realtà , niente è stato ancora concordato, solo dal 26 maggio in poi si entrerà  nella fase decisiva del negoziato. E per l’Italia tutte le fonti ufficiose accreditano (per ora) una sola prospettiva attendibile: «perdono», cioè chiusura della procedura di infrazione grazie ai progressi compiuti contro il dilagare del deficit, a condizione però che si garantisca il rispetto «rafforzato» delle regole contro gli squilibri macroeconomici già  elencate dalla Commissione Europea anche poche settimane fa.
Regole e non ceppi, valide non solo per noi, ma per i 13 dei 27 Stati europei giudicati appunto in condizioni di squilibrio macroeconomico. Almeno sei «comandamenti», sono quelli più importanti, e più o meno questi potrebbero essere i pegni richiesti all’Italia: competitività  dimostrata e salda rispetto agli altri Paesi (e la richiesta verrebbe fatta in termini molto più forti che nel passato), sostenibilità  finanziaria esterna, serrato controllo dell’indebitamento sia pubblico che privato, controllo altrettanto serrato sulla giungla dei mutui immobiliari, maggiore efficienza della giustizia civile, puntualità  dello Stato nei pagamenti alle imprese. Traducendo poeticamente, qualcosa come «ecco l’Italia che l’Ue vorrebbe vedere». Ma la realtà  di questa crisi non conosce ovviamente debolezze poetiche.
Nonostante la riduzione del deficit, quello che la Commissione Europea diceva un anno fa (e allora parlava di una situazione in atto già  da un paio d’anni) è ancora valido: l’Italia «è ancora vulnerabile a improvvisi cambiamenti del sentimento dei mercati», e «si rimarca il bisogno di mantenere il miglioramento del bilancio in termini strutturali, così da instradare il livello del debito su un percorso costante di riduzione».
Per questo, Bruxelles insisterebbe tanto su certe garanzie «accessorie». E dietro Bruxelles, naturalmente ci sarebbe Berlino, nonostante il suo recente «ammorbidimento» in tema di austerità . L’Italia è un po’ dipinta come una cassiera sventata, o furba, che abbia intascato qualcosa di troppo e alla quale si offra ora la «libertà  condizionale», purché si ravveda una volta buona e per sempre.
E per la sua «convalescenza» c’è anche qualche pessimista di qui che già  prevede una possibile «manovrina» finanziaria: nuove tasse, una stangata dopo il perdono, che più tardi verrebbe indirettamente appioppata all’Italia nei fatti, se non annunciata oggi con le parole. In realtà , quei 6 giorni che mancano alla sentenza valgono come 6 anni, secondo i ritmi e gli orologi dell’Europa politica, e tutto potrebbe ancora accadere.


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